PRESENTE & FUTURO

"Piccolo non è bello, bisogna crescere"

Le dimensioni micro delle imprese sono un limite del tessuto produttivo piemontese e rappresentano una zavorra per la ripresa. Troppi cervelli in fuga e una politica priva di visione e coraggio. L'analisi fuori dal coro del professor Cantamessa

“Appena discussa la tesi vengono a salutarmi e mi dicono: professore, vado a lavorare a Milano.  Oppure in Veneto o in Emilia-Romagna, ma anche all’estero. Capita sempre più spesso”. Ed è un’immagine, rapida ma eloquente, dei due volti di Torino e del Piemonte: quella di un luogo dove la formazione e la ricerca funzionano a livello di eccellenza, ma anche dove si sta vivendo un mancato vero sviluppo e si percorre una strada che ancora appare senza una meta definita.

Quei cervelli in fuga, verso altre parti del Paese e dell’Europa sono l’ennesima triste conferma di quel che accade in una città e in una regione dove mentre la politica vive una fase tra le più complicate e incerte, più che altrove, “attirare imprese è cruciale. Perse le stelle polari delle proprie filiere, ci si continua a farsi belli con il manifatturiero, che adesso c’è ma non è per sempre. E, intanto, altre regioni come l’Emilia Romagna e la Lombardia ci stanno passando avanti” osserva, con l’immagine dei suoi studenti che migrano altrove, il professore.

Lui è Marco Cantamessa,  ordinario al Politecnico di Torino, dove ha gestito l’incubatore d’imprese I3P e da anni scruta la città da un osservatorio privilegiato e, quando gli si chiede un’opinione sul ciò che accade e quel che potrà succedere nell’ex one company town e della regione dal profilo economico ancor più complesso, non rinuncia ad andare spesso controcorrente, rifuggendo da una retorica che troppo frequentemente avvolge di melassa anche questioni indigeste, ma inevitabili. E, in questo momento, connotate ancor più dall’incertezza nell’attesa di comprendere quale sarà il reale approccio del Governo allo sviluppo.

Professor Cantamessa, pochi giorni prima delle elezioni politiche lei aveva auspicato che il prossimo Governo comprendesse come sarebbe un grosso rischio il non capire la necessità di innovare. Quello Lega-Cinquestelle non ha ancora compiuto i due mesi di vita, ma dall’ormai famoso contratto e dalle prime mosse, le pare possa essere scongiurato quel rischio?
“Purtroppo no. Tra le parole chiave che rimbombano ogni giorno non si parla quasi di crescita e innovazione. E quando se ne parla, vedo un approccio di politica industriale che mi fa venire tanti dubbi, perchè fondamentalmente si basa sull'uso dirigistico dei soldi della Cassa Depositi e Prestiti, cioè di una parte importante del risparmio degli italiani, per imitare quel che si fa in Germania e in Francia. Purtroppo ci si dimentica che il problema italiano non è legato alla mancanza di denaro, la ricchezza netta è pari a 8mila miliardi di euro, ma alle condizioni istituzionali. Deve essere superato il groviglio tra burocrazia, giustizia, ricerca delle rendite che poi porta le imprese a dire: chi me lo fa fare di investire?”.

Il predecessore di Luigi Di Maio al Mise, Carlo Calenda aveva avviato Industria 4.0 . Era quella la strada giusta?
“Assolutamente sì. Aveva seguito una strada basata su un grandissimo alleggerimento burocratico . Tu investi e godrai degli incentivi se farai profitti, una selezione naturale dei meritevoli. E poi il progetto di Calenda era assolutamente positivo proprio per questa neutralità rispetto a settori e tecnologie, che lo distaccava rispetto all'approccio dirigista del passato. Per questo è stato anche molto criticato, perché non sono pochi coloro che ritengono che l’innovazione nasca da uno che sceglie settori e tecnologie su cui investire e i progetti da finanziare. Un approccio che talvolta va a scimmiottare l'esperienza americana di Stato imprenditoriale, dimenticando che negli Stati Uniti hanno un contesto giuridico e una cultura amministrativa ben diversa e accompagnano il finanziamento dei progetti, cioè di pure promesse, all'acquisto oculato di soluzioni, cioè di innovazioni validate”.

Come sempre quando si affronta questo tema non va tralasciata l’analisi della classe imprenditoriale. Lei dal suo osservatorio come la giudica?
“C’è di tutto. Sicuramente il difetto colossale degli imprenditori italiani è la loro titubanza a crescere. Soprattutto quando crescere vuol dire uscire dalla dimensione famigliare dell’impresa e aprire capitale e gestione ad altri. Questo è il vero il vero nodo. La produttività delle nostre medie e grandi imprese è superiore a quelle straniere. Sono le microimprese, che ospitano la stragrande maggoranza di forza lavoro, che generano il nostro deficit di produttività e sono quelle più familistiche”.

Sa che sta infrangendo un tabù, vero? Non c’è politico che non tessa le lodi delle piccole imprese. Invece, lei…
“Dico che c’è una certa retorica della piccola impresa. Le piccole vanno benissimo purché compiano un percorso virtuoso, crescendo o inserendosi in filiere efficienti. Invece abbiamo molte microimprese che fanno fatica, ma rimangono eroicamente abbarbicate alle loro posizioni bloccando risorse finanziarie e umane. E bloccando che la crescita di quelle più efficienti. E poi il problema del familismo: una ricerca di Bankitalia attesta che in questo tipo di impresa si tende non solo ad avere l’amministratore delegato appartenente alla famiglia, ma che in famiglia si scelgono anche i responsabili operativi. Questo è un vincolo alla crescita, ma anche un bel modo per allontanare i laureati bravi. Chi mai si metterà in una piccola azienda dove il ruolo delle prime linee sarà sempre assegnato a uno della famiglia?”.

O si sposa la figlia del titolare, oppure niente?
“Infatti capita molto spesso, magari accompagnandosi a liti con il neo cognato che viene spodestato”.

I ministeri chiave per lo sviluppo  e il lavoro sono nelle mani dei Cinquestelle, che a Torino governano la città da un paio d’anni. Se potesse essere indicativo sull’azione del Governo, cosa si ricaverebbe dall’esperienza della giunta di Chiara Appendino?
“Una grande difficoltà a muoversi. Qualche bella suggestione, ci mancherebbe. Però dal lanciare delle idee, neanche ancora dei progetti, al metterle in pratica c’è un bella differenza. E ho visto davvero poco in questo senso. Certo non si può immaginare che il futuro della città lo faccia solo il Comune, però qualunque investitore importante una capatina a Palazzo Civica la fa. E se trova interlocutori convincenti, magari un pensiero a ivestire qui lo fa, altrimenti va altrove"

Quindi orizzonte grigio per Torino.
In un momento in cui il tessuto industriale è stato un po’ lacerato dalle scelte di alcune grandi imprese, tra cui la Fiat, ma non solo, le competenze che si trovano disperse nelle Pmi del territorio devono essere messe a sistema prima che vadano alla sbando o in pensione. Questo lo si può fare se qualcuno tra i medi diventa grande, ma non sta ancora capitando. Oppure se si fa una pesante opera di investimenti. Ci vorrebbe un caso Gm o Avio all’anno”.

Professore, la politica, il mondo dell’impresa, l’università, tutti continuano a dire che bisogna fare sistema, lei è d’accordo?
“Sì, il problema è non limitarsi a dirlo, ma farlo”.

I dazi potranno peggiorare l’economia piemontese?
“I dazi non fanno mai bene a nessuno. Paradossalmente questo fatto, però, potrebbe essere giocato positivamente: proprio per far fronte alle politiche dei dazi molte multinazionali immaginano di frammentare i propri impianti produttivi in Europa. Insomma, potrebbe essere un’occasione, ma bisogna essere rapidi e appetibili rispetto ad altre regioni italiane, per non dire di altri Paesi europei”.

E oggi in Piemonte…
“Siamo più marginali rispetto ad altre regioni italiane”.

Industria 4.0 però è partita, lei teme sarà frenata con il nuovo Governo?
“Intanto il progetto Competence Center penso sia abbastanza al sicuro e questo è un punto di partenza fondamentale. Però, mi chiedo cosa accadrà alle tante risorse attivate dal precedente Governo a confluire nei Pir, per agevolare investimenti nell'economia reale. Davanti a tutta questa incertezza, quanti sceglieranno di avviare gli investimenti? Per non parlare degli stranieri, che oggi vedono l'Italia con un grande punto interrogativo. Il problema è che gli investimenti nell'economia reale sono a lungo termine e richiedono stabilità e certezze. E in questo momento non è che se ne veda tanta”.

Vede il rischio di un arretramento a Industria 2.0?
“Temo un arretramento all’era glaciale”.

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