ECONOMIA DOMESTICA

Ma che dignità, Cgil contro Di Maio: 15mila posti di lavoro a rischio

Dopo Confindustria anche i sindacati contestano il provvedimento del vicepremier, ora in Parlamento per la conversione in legge. La segretaria Valfrè: “A Torino in ballo migliaia di rinnovi”. Il dietrofront sui voucher e il pasticcio sulle indennità

Se c’è un’impresa che questo governo è già riuscito a compiere, è mettere d’accordo Confindustria e Cgil. Padroni e lavoratori per una volta dalla stessa parte, entrambi contro il cosiddetto decreto Dignità, presentato dal vicepremier Luigi Di Maio, che intanto per le opposizioni è già stato ribattezzato da ministro del Lavoro a ministro della Disoccupazione. Dopo la bocciatura arrivata da tutta la galassia imprenditoriale, il provvedimento finisce nel mirino anche dell’organizzazione di Susanna Camusso, che calcola nella sola area metropolitana di Torino 15mila persone impiegate con contratti a termine e in somministrazione senza interruzioni da più di 12 mesi. Tutti a rischio licenziamento (in Parlamento il tetto dovrebbe passare da 12 a 24 mesi, ma il pericolo che il tentativo di stabilizzazione si trasformi in licenziamenti o in contratti ancor più precari, come per esempio a partita iva, resta altissimo). Un dato, peraltro, che a detta della stessa Cgil potrebbe essere sottostimato, giacché a questi 15mila andrebbero sommati i contratti di durata iniziale inferiore e che successivamente sono stati prorogati o rinnovati, superando i 12 mesi di anzianità.

“Chiediamo che nella fase di conversione in Legge del decreto, vengano previste misure che garantiscano per lavoratrici e lavoratori continuità occupazionale – afferma la segretaria generale della Cgil Torino Enrica Valfrè –. È necessario quindi estendere e generalizzare un diritto di precedenza effettivo, sia sui rinnovi dei contratti a termine e di somministrazione che sulle assunzioni a tempo indeterminato”. “Una norma che, se resa strutturale, eviterebbe il rischio concreto del turn-over per cui scaduti i 12 mesi o i 24 con causale, si avvierebbe la stabilizzazione – prosegue in una nota la Cgil –. Con l’inserimento della causale, il decreto si muove timidamente nella direzione giusta ma non è sufficiente. La centralità e la tutela del lavoro passano attraverso una riforma complessiva che estenda i diritti e le tutele, a prescindere dalla tipologia del rapporto di lavoro: questo è quanto chiede la Cgil”.

Una posizione che ricalca anche quella espressa a livello nazionale. Un decreto bocciato su tutti i fronti dalla Cgil, a partire dalla reintroduzione dei voucher che Di Maio voleva rottamare prima che la Lega lo costringesse al dietrofront al punto da prevederli non solo per i settori agricolo e turistico, ma pure nelle pubbliche amministrazioni. Anche sugli sgravi alle imprese non mancano le perplessità. In una intervista al Foglio Tania Scacchetti, numero due della Cgil afferma: “Avremmo preferito un impegno maggiore per accompagnare i datori di lavoro nella trasformazione dei contratti verso una maggiore stabilizzazione. E invece in uno degli emendamenti proposti dal M5s si prevede uno sgravio fino a 3mila euro all’anno, per tre anni, per gli imprenditori che nel 2019 e 2020 assumono giovani lavoratori col contratto a tutele crescenti. Di fatto la prosecuzione del Jobs Act di Renzi e del bonus giovani di Gentiloni”.

E, intanto, anche le accuse che Di Maio rivolge al Pd sull’innalzamento delle indennità di licenziamento svelano una realtà ben diversa da quella della propaganda grillina. A partire dal fatto che l’indennità non è stabilita discrezionalmente dal giudice in misura variabile ma è calcolata in misura fissa: 2 mensilità per anno lavoro, fermo restando un limite minimo di 4 e massimo di 24 mensilità. Pertanto, un lavoratore ingiustamente licenziato con 3 anni di anzianità ha diritto a 6 mensilità di indennizzo, con 12 anni di anzianità ha diritto a 24 mensilità. Il decreto Di Maio non modifica il coefficiente fisso ma solo i limiti minimi e massimi portandoli a 6 e 36, spiega il deputato dem Antonio Viscomi. Anche in questo caso dunque un lavoratore ingiustamente licenziato con 3 anni di anzianità ha diritto sempre a 6 mensilità di indennizzo e con 12 anni di anzianità ha sempre diritto a 24 mensilità. Dunque, chi trae beneficio della modifica proposta da Di Maio? Non certo i lavoratori con anzianità superiore a 12 anni: per costoro oggi si applica ancora l’art. 18 e non il Jobs Act; se invece sono assunti oggi, e se tutto rimane com’è, saranno interessati alla riforma tra 13 anni. Il che fa sorgere qualche dubbio. Quindi, a conti fatti e a norme lette, restano soltanto i lavoratori con anzianità fino ad un massimo di due anni, che dalle 4 mensilità di oggi passeranno alle 6 mensilità di domani. Che però non vedranno mai perché basta andare in conciliazione e l'indennità – questa non modificata da Di Maio – ritorna immediatamente a livelli più bassi, fino a due mensilità. “Ecco, la grande rivoluzione promessa si traduce in un gioco delle tre carte: molto rumore per nulla. Noi ne siamo consapevoli, per questo abbiamo presentato un emendamento per incrementare l’ammontare dell'indennità che il lavoratore può ricevere in sede di conciliazione. E lì che si annida la trappola per i lavoratori. Accetterà Di Maio il nostro emendamento?”. 

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