La lezione dei comitati inquilini

A volte basta leggere dieci pagine di pagine di un libro per tuffarsi nel passato, riscoprendo così una Torino dalla linfa vitale: una metropoli vivace, di grande impegno civile e soprattutto partecipativa. Il volume “Corso Taranto. Il nostro quartiere” a cura di Pasquale Fedele e Daniele Darchini (pubblicato dalla Regione Piemonte) è un meraviglioso affresco ritraente la Torino dell’espansione urbana nell’epoca in cui migliaia di immigrati, giunti dalle terre del meridione, approdarono in città. Un ritratto appassionante che sin dal primo capitolo conduce il lettore in un’epoca apparentemente vicina all’attuale, ma per molti aspetti in realtà lontanissima.   

L’onda migratoria rappresentò un vero e proprio terremoto nel tessuto torinese. Improvvisamente il capoluogo piemontese iniziò a tremare prendendo atto di un’emergenza abitativa che andava superata velocemente, così da evitare probabili tensioni sociali. Progetti urbanistici furono quindi attuati in pochissimo tempo offrendo all’antica capitale sabauda nuove opportunità e un rinnovato tessuto sociale (insieme a qualche inedito problema).

Le massicce assunzioni di casa Fiat degli anni ’60 richiamarono infatti a Torino nuove famiglie in un contesto cittadino dove si era creato un vero e proprio vuoto abitativo senza precedenti storici. Nacquero così i quartieri di espansione urbana, collocati nelle periferie Nord e Sud della città. Tra questi ha certamente rivestito un ruolo di spicco il quadrilatero di Corso Taranto: agglomerato cresciuto troppo in fretta e, come spesso accadeva all’epoca, senza i servizi essenziali per la cittadinanza.

In realtà difficili, fatte di case e poco verde nonché senza alcun punto di riferimento per gli abitanti, sono cresciuti i comitati degli inquilini: collettivi che raccoglievano intorno a sé giovani lavoratori e padri di famiglia. Cittadini uniti per rivendicare l’inclusione sociale sognando quartieri che non fossero solamente enormi caserme dormitorio.

Gran parte dei comitati formatisi in questi ultimi tempi nel capoluogo piemontese, come nel resto d’Italia, hanno parole d’ordine intrise di “No”. Dinieghi amplificati nella lotta annunciata contro il degrado ma raramente portata davvero contro coloro che amministrano le città con arroganza. Al contrario le battaglie avviate in questi ultimi anni sono incentrate principalmente contro l’arrivo di nuovi cittadini provenienti dal Sud del mondo, nell’errata convinzione che il disagio trovi soluzione facendo sparire i migranti dalle nostre città.

Nella Torino degli anni ’60 i residenti invece chiedevano diritti, asili, negozi e aree verdi per tutti (nessuno escluso). Cittadini organizzati con lo scopo di far parte integrante della città; militanti in guerra contro i ghetti di cemento e al fianco degli operai che iniziavano a sollevare la testa anche all’interno dei reparti di Mirafiori: linfa vitale oramai persa tra consumismo e isolamento umano.

L’esperienza maturata all’interno dei comitati inquilini è parte di quel mondo che ha stimolato Diego Novelli, Sindaco di Torino a cavallo degli anni ’70-’80, nel progettare la suddivisione della città in 23 quartieri: sedi istituzionali dove fare sintesi delle proposte maturate e cresciute nei territori stessi. Gli agguerriti comitati degli inquilini, insieme ai consigli di fabbrica e ai comitati spontanei, diventarono così l’ossatura portante del decentramento voluto dalla giunta rossa pedemontana.

Rileggendo i nomi dei protagonisti di quei giorni, e soprattutto di quelle battaglie, si trova il mondo politico vivace della Torino gli anni ‘70, quello sano contaminato solamente dalla progettualità e non dalla corruzione. Lavoratori insieme a giovani che hanno in seguito intrapreso la carriera nelle pubbliche istituzioni senza mai perdere la coerenza e neppure la fede morale, come bene dimostra Rocco Larizza che ho avuto il piacere di conoscere tra i banchi del Consiglio regionale.

Il paragone con quanto accade oggi nei consigli dei quartieri è spesso termine di raffronto triste quanto svilente. Quei luoghi, un tempo sede di confronti accesi e dibattiti sviluppatisi nel desiderio di costruire una città migliore, sono mutati in fabbriche di contributi oppure di sterili concessioni di locali comunali i cui beneficiari sovente risultano essere associazioni “politicamente amiche”. In questo contesto deprimente scemano, sino a scomparire, i poteri in mano a Presidenti e Consigli circoscrizionali: tutto il decentramento sembra incunearsi in una lotta “senza quartiere” tra Comune e istituzione circoscrizionale, con susseguente rimpallo di responsabilità tra gli uni e gli altri sui mali della città.

La stessa tutela del diritto alla casa rimane un tema irrisolto. La conferma giunge dallo studio di sintesi elaborato dal Dipartimento di Storia, e ripreso da Pasquale Fedele (Responsabile Ufficio per lo studio, l’analisi, la ricerca storica e sociale dell’edilizia pubblica Atc Piemonte), dove è possibile estrapolare dati significativi: a Torino nel 2016 sono stati assegnati 402 alloggi a fronte di 12.714 famiglie che ne hanno fatto richiesta.

In sintesi, mentre negli anni ’60 in poco tempo venivano edificati ex novo interi quartieri, dove prima sorgevano cascine settecentesche e prati, oggi mancano le case popolari. Un’assenza assolutamente incontestabile dovuta alla scelta di non costruire più alloggi comunali, mentre molte abitazioni pubbliche vengono vendute agli inquilini con ritrovata capacità di reddito. Lo stesso mercato immobiliare vive, paradossalmente, una stagione di grande surplus: più case che famiglie. Infine, sempre nell’anno 2006 sono stati eseguiti in Italia 35.000 sfratti mano militare, contro le 160.000 richieste di intervento delle forze dell’ordine.

La stagione torinese a cavallo degli anni ’60-’70 è certamente stata ricca di tensioni e conflitti, ma ha sviluppato un grande desiderio di partecipazione alla res publica, nonché un considerevole senso di appartenenza comunitaria in molti torinesi. All’epoca non si costituivano ronde a difesa delle aree verdi dagli spacciatori, ma collettivi capaci di trasformarsi in macchine da guerra utili nella battaglia a favore della realizzazione di servizi e spazi comuni.

Non guardare con ossessione il passato è di certo il primo passo per andare incontro al futuro, ma ogni tanto una sbirciatina alle proprie spalle può permettere di intercettare insegnamenti che sono frutto di grandi esperienze sociali: un immenso sostegno alla portata dei tanti che oggi credono di essere nati “già imparati”.

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