"Talpa" massone a Palagiustizia, no Cassazione a indennizzo

Il "no" della Cassazione a un risarcimento per ingiusta detenzione per Ciro De Vivo, maresciallo della guardia di finanza, ha chiuso un capitolo di una misteriosa vicenda sulla presenza di "talpe" della massoneria nel Palazzo di Giustizia di Torino. De Vivo, accusato di avere passato notizie riservate a un confratello massone di altissimo lignaggio, era stato assolto in appello (dopo una condanna in primo grado a due anni) ma, durante le indagini, nel 2010, trascorse venti giorni ai domiciliari. La Corte ha respinto la sua richiesta di indennizzo perché, pur prendendo atto dell'assoluzione, ha rilevato nella condotta del sottufficiale una "colpa grave" per "comportamento contrario ai doveri di imparzialità". Furono assolti anche gli altri imputati: Francesco Sannia, massone di XXX grado (il più elevato) e "Sovrano Ispettore" della loggia Cavour 16, e la presunta beneficiaria delle informazioni, una donna che all'epoca era sotto indagine per irregolarità nell'importazione di animali domestici. Dal processo emerse che De Vivo e il "sovrano" si incontrarono a Palazzo di Giustizia il 5 gennaio 2010, ma non la prova di un concorso diretto o indiretto del maresciallo nell'accesso abusivo al sistema informatico della procura. Gli Ermellini hanno peraltro preso atto che "non si può escludere che Sannia e la donna si fossero rivolti a soggetti diversi".

Dalle intercettazioni risultò che Sannia promise alla donna - una veterinaria - di prendere notizie utili a lei e al suo difensore grazie a "qualche conoscenza". In un'altra occasione si rammaricò che "oggi non c'era personale che potesse ficcare il naso nel dossier" per vedere cosa avessero dichiarato i testimoni. Il pm che si occupava della pratica era Antonio Rinaudo, che secondo quanto si diceva nelle conversazioni aveva fama di essere "uno tra i peggiori" e una "testa di m. ..." al quale "fare cambiare le idee non era cosa semplice". Una volta acquisite le intercettazioni Rinaudo secretò il procedimento sulla veterinaria e incriminò i tre. L'accesso abusivo al sistema informatico avvenne da un computer della segreteria del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello (estraneo alla vicenda). L'impiegata fu interrogata: disse che lasciava sempre la password in vista e spiegò di avere visto, una volta, un carabiniere seduto senza permesso alla sua postazione. De Vivo e Sannia appartenevano alla stessa loggia, ma il maresciallo era un neofita. A presentare il finanziere nella confraternita era stato un ingegnere torinese tramite un avvocato penalista (difensore di importanti pentiti di mafia). Sannia, interrogato, disse comunque che non aveva il potere di provocare "scatti" nella carriera di De Vivo, e sottolineò che la regola massonica "non vuole che vengano violate le leggi dello Stato".

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