SOTTO LA MOLE

Appendino fa rima con Torino, il populismo "mite" sabaudo

L'ex one company town emblema della mutazione antropologica e politica che sta investendo il Paese. La fine del conflitto capitale lavoro e la post-modernità. Le classi dirigenti e i Cinquestelle. L'acuta e stimolante analisi del sociologo Panarari

Non è stato un incidente della storia né un accidente politico. È successo perché Torino, da sempre laboratorio e cavia di processi che troveranno altrove e successivamente dispiegamento più compiuto, ha offerto l’habitat naturale perché attecchisse. E così quella “mutazione antropologica delle società contemporanee” frutto di una cesura netta tra modello fordista, così come si è affermata nel Novecento, e una stagione dai connotati ancora per molti versi ignoti (forse, la surmodernità di Marc Augé), non poteva che trovare terreno fertile sotto la Mole. La società è “liquida”, il consenso sempre più “fluido”. E dove, se non nella città che è stata la capitale italiana del fordismo, la one company town in cui l’industrializzazione ha creato un diffuso benessere e allo stesso tempo nutrito il conflitto tra capitale e lavoro, avrebbe potuto vedere la luce quell’esperimento che ha portato Chiara Appendino a strappare la città che per un quarto di secolo è stata governata ininterrottamente da quell’alleanza tra gli eredi del Pci e la borghesia cittadina (sotto la regia del banchiere Enrico Salza)? “Torino è emblematica del cambio di paradigma” spiega il professor Massimiliano Panarari, sociologo, docente alla Luiss di Roma e alla Bocconi di Milano, autore del recente Uno non vale uno (democrazia diretta e altri miti d’oggi) edito da Marsilio. Quasi, azzardiamo noi, che al “giacobinismo mite” di stampo sabaudo, incarnato dalla tradizione azionista, non potesse che succedere un populismo altrettanto mite, secondo i canoni tipici dell’understatement subalpino.

Professor Panarari, facciamo un passo indietro e cerchiamo innanzitutto di capire cosa è successo a Torino, quando gli elettori hanno bocciato prima ancora che un candidato sindaco, Piero Fassino, un blocco di potere, un “Sistema” che attorno a lui e ai suoi predecessori si era coagulato.
«Torino è stata un pezzo fondamentale dell’800 e del 900 italiano. Qui si è sentita più che altrove la fatica della transizione verso una società nuova. Una transizione che il centrosinistra aveva provato a governare».

Qualcosa, a quanto pare, non ha funzionato…
«È stata proprio questa fase di passaggio a spianare la strada al Movimento 5 stelle, che è il partito della post-modernità. Un’organizzazione camaleontica con grande capacità di adattare la protesta contro l’establishment, ingrediente su cui si plasma, ai vari contesti locali».

Altrove, però, non ha attecchito. Perché?
«A Torino si sono saldati mondi diversi. Da una parte le periferie, l’antagonismo cittadino, i centri sociali e pure un pezzo significativo della sinistra più connotata ideologicamente, quella che si riconosce nella Fiom e nelle battaglie del secolo ferrigno contro i padroni e quel che resta della Fiat. Dall’altro la figura di Appendino, per la sua storia e la sua immagine, ha rassicurato un pezzo significativo della borghesia e della upper class torinese che le hanno accordato la propria fiducia in nome del cambiamento».

Insomma, un mix perfetto…
«Così il M5s a Torino si è trasformato in un catch-all party, un partito pigliatutto, una macchina da consenso, interclassista, come un tempo era la Dc. Appendino, e la sua cerchia esterna al MoVimento, dovevano costituire l’argine a questa grande mobilitazione antagonista, trasformando il M5s in un partito di governo».

È andata così?
«No. E ora le contraddizioni stanno emergendo».

Si spieghi meglio.
«Il cappello dell’antipolitica, interpretabile come rivolta contro le élite, è stata la matrice unificante, l’ombrello sotto il quale il M5s ha tenuto insieme elettori profondamente diversi su tutto. Il problema nasce quando il “camaleonte politico” si confronta con l’esperienza di governo. Lì esplodono le contraddizioni: sulle Olimpiadi, sulla Tav e così via».  

E a questo punto cosa succede?
Ci sono due strade: una è l’immobilismo, la stasi come sistema per non scontentare tendenze e sensibilità opposte, l’altra è di alternare politiche chiaramente di destra con altre chiaramente di sinistra cosicché ognuno si possa riconoscere in alcuni provvedimenti. A Torino permane un sostanziale immobilismo. Fino a quanto questo immobilismo possa durare è una domanda che non si può eludere. Se le promesse verso le periferie non si attuano e la giunta non propone a quei ceti medi e borghesi un modello alternativo anche qui le contraddizioni esploderanno».

Torino, però, è stata anche la prima a mettere in campo un tentativo di reazione con le Madamin e i 30mila Sì Tav. È questa la risposta?  
«La Torino-Lione è un simbolo per quelli del No e per quelli del Sì. L’ambientalismo è una delle poche matrici ideologiche costitutive del M5s, per quanto sia diventato ben presto un mix tra sindrome Nimby ed ecologismo antagonista. Così nasce la decrescita antiprogressista: contro la tecnica, contro la scienza nonostante il paradosso di un movimento che si nutre di piattaforme digitali». 

Detto questo, come se ne esce?
«La società torinese può contare ancora su una borghesia vivace, costituita da professionisti liberali, imprenditori dell’innovazione, c’è un rinnovato fermento culturale. Per questo pezzo di Torino la Tav è diventata un simbolo, così come per gli altri; un’icona attorno alla quale si sta polarizzando un confronto-scontro tra chi crede nel progresso e chi ne diffida».

È attorno a questa dicotomia che si scontreranno populismo e anti-populismo nei prossimi, a partire dalle regionali in Piemonte?
«Nel corso della storia i grandi partiti sono nati da fratture socio-economiche. Quando quelle fratture vengono superate dalla storia, quelle organizzazioni perdono la loro mission».

È quel che è accaduto agli eredi di Pci e Psi?
«Sinistra e Destra nascono all’alba della modernità e attraversano la grande trasformazione industriale che provocò delle faglie nella società che in parte i partiti hanno aiutato a comporre. Oggi ci sono fratture di tipo diverso. Il M5s ha interpretato questa nuova stagione mettendo insieme pezzi di un mosaico che restituisce un’immagine ancorché molto contraddittoria».

E intanto alle prossime elezioni regionali risulta favorito il centrodestra: M5s a Palazzo Civico e Lega in piazza Castello, due facce della stessa medaglia?
«Il Piemonte è una regione di “produzione”, la Lega che ha rappresentato fin dalla sua nascita i ceti produttivi del Nord ora sta cambiando pelle, trasformandosi in un partito sovranista ma anche in questo caso non mancano le contraddizioni. Lo abbiamo visto con la mobilitazione delle imprese sulla Tav proprio a Torino, un fermento che prima o poi porterà a un “chiarimento” anche all’interno della Lega dove l’orizzonte politico di Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti non mi pare coincida esattamente con quello di Salvini».

Intanto, però, sembra mancare un’opposizione. Partiti o forze in grado di intercettare il malcontento.
«C’è un problema di brand, il Pd, e di classe dirigente. Servono proposte in grado di lanciare dei segnali. Messaggi nuovi per interpretare una società diversa da come la conoscevamo. Viviamo in un momento di sovranismo psichico che dilaga e l’onda aumenterà la sua portata in assenza di argini politici».

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