RETROSCENA

Tutti bogianen davanti al caos

In attesa di vedere la piega che prenderà la crisi di governo e capire quali riposizionamenti ne conseguiranno, tra i politici nostrani prevale la cautela. Da destra a sinistra nessuno (per ora) si muove

Bogia nen, quando non resta che aspettare e sperare. Lo fanno, più o meno, tutti i politici piemontesi compresi quelle delle prime file di fronte ai giochi di potere, al tempo della crisi, che ormai sono fatti dai leader. In ascesa o in discesa, che traballano o che ritornano. Bogia nen, quando è opportuno e conveniente aspettare prima di muoversi evitando corse in avanti o passi falsi su un terreno che cambia di ora in ora. L’archetipo del politico che dal Piemonte guarda con attenzione (e apprensione) a quel che accade nei Palazzi romani senza, però, cedere a sirene o pulsioni è proprio chi la regione la governa.

Di fronte all’invito, sincero ma anche forte, dell’amico Giovanni Toti a seguirlo nella strada di allontanamento da Forza Italia, Alberto Cirio pur senza arrivare all’hic manebimus optime, lì è rimasto e lì resta accortamente distaccato da manovre, beghe e prese di posizione che pure travagliano ancora il suo partito, anche con il governatore della Liguria in rotta ormai verso altri lidi. Posizione tenuta e rivendicata fin dall’inizio, quella di Cirio. Un atteggiamento certamente differente rispetto a quello di chi con Toti aveva annunciato di andare e che in effetti ha aderito ai suoi comitati, come Osvaldo Napoli, ma che poi dopo la scomunica emessa da Palazzo Grazioli sembra aver tirato i remi in barca. In fondo, il deputato di Giaveno l’aveva in qualche modo anticipato questa sua posizione da equilibrista: aderire all'associazione, ma non a un nuovo partito.

Una contraddizione in termini (politici) visto che i comitati totiani sono il passaggio più o meno obbligato per la nuova formazione. La permanenza nel partito di Silvio Berlusconi della totiana (assai) tiepida Daniela Ruffino, di fatto lascia e consegna nelle mani del senatore alessandrino Massimo Berutti – da subito, senza titubanze o furberie, con Toti – leadership, gestione e coltivazione della nuova forza politica in Piemonte. Il partito dell’ex consigliere politico di Berlusconi, la cui collocazione nel centrodestra chiesto dal Cav al Capitano aprirà a ulteriori questioni proprio per la coabitazione con Forza Italia, non ha per ora neppure un assessore, né un consigliere a Palazzo Lascaris visto che Paolo Ruzzola ha seguito la frenata di Napoli e Ruffino. Questo non significa che l’evolversi della situazione nazionale in un modo o nell’altro non possa agevolare quella campagna acquisti che Berutti non ha ancora incominciato rinviando l’operazione – sul territorio, così come tra gli amministratori – a settembre. Oggi dopo l’annunciato incontro tra Berlusconi e Salvini, con sul piatto veti e controveti da superare, si capirà forse di più cosa potrà succedere nel partito e in quello che Toti sta costruendo.

Progettano, con assai più entusiasmo sia pure venato da un visibile nervosismo, la costruzione delle loro candidature gli zingarettiani piemontesi. Al voto, al voto, sennò si resta in panchina: la sinistra del Pd spinge e sgomita non riuscendo a nascondere il revanchismo nei confronti di quel renzismo che per loro è morto e sepolto, ma invece vive nella pattuglia parlamentare. Perduti gli antichi insegnamenti dell'antica politica in cui le smanie che pure esistevano dovevano essere contenute, nascoste, dissimulate gli zingarettosi spingono verso le urne e verso le urne prospettano il loro futuro.

Giovani rampanti: dal segretario Paolo Furia al vicepresidente del consiglio comunale di Torino Enzo Lavolta, passando per il vercellese a Roma (nello staff di Zingaretti) Andrea Pacella. E vecchie glorie come l’ex senatore alessandrino, oggi tesoriere regionale, Daniele Borioli e la sua concittadina, nonché già prima cittadina, Rita Rossa con non lontani trascorsi renziani e poi, ancora, un’altra ex come Gianna Pentenero, senza scordare gli attuali parlamentari Andrea Giorgis, chiamato al Nazareno dal nuovo segretario e Anna Rossomando.

Non si agitano troppo, ma sono pronti allo scatto appena Matteo alzerà il dito, i renziani nelle loro diverse declinazioni. Tacchini che festeggiano il Natale nel caso si vada al voto e non nasca qualcosa di nuovo. Dalla renzianissima Silvia Fregolent al boschiano Mauro Marino a scendere, con Davide Gariglio, Enrico Borghi, Mauro Laus e gli altri, nella piramide leopoldesca, compresi i più scalpitanti giachettiani (Enrico Morando e Davide Ricca) tutti in attesa. Di quel che dirà oggi pomeriggio l’ex segretario, di quel che si aspetta finalmente decida Matteo.

L’altro Matteo rassicura il suo esercito sul Po, pronto ad ingrossarsi ancora quando si andrà a votare. Se ci si andrà in fretta. Il clima è quello che precede la vittoria, i posti in Parlamento non mancano per un partito che ormai ha pressoché raschiato il barile della sua classe dirigente in Piemonte.

Non manca però, tra i parlamentari peones, quella giusta dose di preoccupazione sull’esito della mossa del leader. Nessuno lo dice apertamente, ma più d’uno fa gli scongiuri perché quel gol a porta vuota dell’apertura della crisi non si tramuti in autogol.

Bogia nen, pure dalle parti dei Cinquestelle, dove – dopo la sconfitta sulla Tav e lo sberlone di Salvini – muoversi, alzandosi dalla poltrona, significa perdere il posto. Lo hanno capito, ancor prima che a Roma, proprio a Torino dove strepiti e proteste non sono mai arrivati al punto di mettere in discussione la permanenza su quei banchi della Sala rossa conquistata quando immaginare Salvini che metteva all’angolo Di Maio e si prendeva il Paese era più che fantapolitica.

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