Non tutto è smart working

Lo smart working non è ciò di cui quasi tutti si sono riempiti la bocca in questi mesi di Covid e chiusura di uffici e fabbriche. Si è fatto di necessità virtù che è una cosa ben diversa. Di fronte all’emergenza e alla necessità di non licenziare, come stabilito dal Governo, le aziende hanno collocato in home working – lavoro da casa – tutte le attività che era possibile fare da remoto. I Comuni, le Asl e gli altri enti pubblici hanno fatto un uso massiccio dello smart working. Anche per una paura diffusa di contagio che nel pubblico era ed è molto più ampia rispetto al privato.

Innanzitutto bisogna chiarire perché non è smart working ciò che è avvenuto. E la risposta è banale quanto apparentemente provocatoria. La verità è che non tutto il lavoro da casa è intelligente innanzitutto perché non tutti i lavori sono intelligenti e non basta svolgerli da casa per renderli tali.

Il lavoro intelligente non è necessario che sia eseguito dalla propria abitazione, non va fatto per emergenza ma deve diventare parte di un processo produttivo pianificato e dentro un’innovazione di processo. A fronte di un’innovazione tecnologica è possibile introdurre fasi di smart working nel processo produttivo. In fondo chi non ricorda gli ante litteram dello smart working erano i conduttori di caldaia nei condomini degli anni 60 e 70 che passavano al mattino e, senza entrare nel locale caldaia, ascoltavano dal marciapiede se la caldaia girava bene.

Se si automatizzano parti di magazzino e attività di logistica, se il lavoratore è impegnato su più macchine utensili o è un assistente informatico, un commerciale, un buyer e così via, allora si possono ridurre le persone effettivamente presenti in azienda allo stretto indispensabile. Allora è vero smart working perché è la tecnologia, l’internet delle cose, che lo determina. Se sono un impiegato che inserisce dati, se gestisco un archivio, cioè se svolgo un lavoro ripetitivo e costante l’azienda può favorire il lavoro da casa ma, lo ripeto, non è smart working.

Sul fasullo smart working si è poi aperto un dibattito di genere, dove una parte sosteneva che tale metodo favoriva le donne, soprattutto mamme, un’altra che appesantiva i doppi e tripli ruoli della donna costretta nell’ambiente domestico. Dibattito in cui conta molto la soggettività della situazione che uno vive. Non sono un sostenitore del lavoro da casa o del telelavoro, perché credo molto nel luogo di lavoro come punto di aggregazione sociale e condivisione delle problematiche sociali e sindacali. Ma non voglio convincere nessuno. Detto ciò, la clausura è finita e ora bisogna tornare al lavoro e qui si apre un bel problema.

Molti sindaci, non solo quello di Milano Sala, sostengono che bisogna tornare negli uffici perché è ora di “affrontare” di nuovo lo sportello e il pubblico. Si è assistito a un dibattito piuttosto stucchevole su come governare la distanza con il pubblico di cui la migliore protagonista è senza dubbio la ministra Azzolina che ha inanellato una serie di “rime buccali” da fare sbellicare o piangere. Chi non è molto anziano ma si affaccia ai sessanta di età, può benissimo ricordare che tutti gli uffici pubblici, le banche, quasi tutto ciò che prevedeva un rapporto con il pubblico aveva i divisori. Tu entravi in una banca, all’anagrafe, all’Aci, all’Asl, in posta e avevi l’addetto al di là di un vetro divisore. E dire che tanti giovani ministri e studiosi di ogni genere si sono arrovellati sulle procedure.

Il problema è che mentre nel privato ti comunicano che da domani rientri alla normale attività (perché non era smart working), nel pubblico, sembra che il timore da contagio sia molto più diffuso. Ripeto non lo dico io, lo dicono le code davanti alla motorizzazione, l’impossibilità di prenotare le visite mediche normali all’Asl, la banca che, sovente, non ti risponde nemmeno al telefono, lo dicono le code all’anagrafe del Comune di Torino. No, scusate quelle c’erano già prima grazie alla sindaca di Torino e alla promossa ex assessora, ora ministra all’Innovazione. Lo dicono gli utenti che si trovano ancora davanti cartelli che sbarrano le porte pubbliche, ovviamente non sempre.

Ritornare alla normalità significa dare alla cittadinanza l’agibilità del servizio pubblico e anche privato. La normalità è consentire agli anziani e a chi ha bisogno di curarsi di poter accedere al servizio pubblico. La normalità è dare alle parole il significato che hanno e non un altro per cui consiglio una lettura per le ferie che potrebbe essere affascinante e interessante: un vocabolario della lingua italiana, dalla A alla Z.

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