Olimpiadi, mettiamoci in gioco

Siamo in campagna elettorale ed un battito d’ali a Losanna alimenta una pioggia di dichiarazioni e battibecchi a Roma, mentre a Torino se ne discute sui social in tono minore ma riaprendo vicende chiuse da tempo.

Parliamo della gara per l’aggiudicazione delle prossime Olimpiadi che vede una sfida tra Parigi e Los Angeles. Renzi sfotte la giunta Raggi, qui in tono minore il dibattito è circoscritto tra consiglieri di minoranza ed opposizione.

I grandi eventi suggestionano, entusiasmano ma mettono allo stesso tempo paura. E sulla paura, oggi, si costruisce consenso allo stesso modo degli investimenti che dovrebbero creare sviluppo ed occupazione.

Personalmente non discuto se sia necessaria o no un’altra Olimpiade. Ricordo bene il clima di quei giorni per aver seguito direttamente le vicende olimpiche da un osservatorio privilegiato, e l’incertezza che c’era fino al giorno prima su come la città avrebbe accolto l’evento. Con il senno di poi possiamo avere alcune certezze.

In quel momento si ricostruì in parte la nostra identità di torinesi in senso positivo. Chi si è dimenticato non solo l’entusiasmo ma anche la visibilità dell’evento a livello planetario è bene che si rinfreschi la memoria. A memoria ricordo che quella fu l’occasione per rinnovare e ampliare l’offerta delle guide turistiche di Torino e del Piemonte in tutte le principali lingue del mondo ferme all’epoca a decenni prima. Ma l’emblema del riposizionamento di Torino nell’immaginario collettivo è tutto in un articolo del National Geographic dell’epoca “From "Turin" to "Torino": Olympics Put New Name on the Map”

In quell’articolo Torino finiva di essere un sobborgo vicino a Milano. E quando i corrispondenti americani hanno fatto le valigie quella idea è rimasta valida fino ai giorni nostri. Nessuna subalternità, orgoglio di una città bella, civile, moderna.

Se dovessi ripensare alle immagini recenti di Torino che hanno fatto il giro del mondo ne ho in mente una, della scorsa primavera, e non è piacevole richiamarla alla nostra memoria collettiva. Per tutti questi motivi non mi è piaciuta la banalizzazione del confronto sui social tra esponenti di maggioranza e di opposizione sul tema avveniristico “olimpiadi si, olimpiadi no”.

Nella mia esperienza personale sono anche vittima di una nemesi che mi piace rendere pubblica. Dopo aver studiato l’eredità olimpica la mia sede di lavoro (mi occupo di tutt’altro, oggi) è il famigerato MOI. Dalla finestra da un lato vedo i profughi e dall’altra la futura sede regionale, a pensarci bene, più in là potrei vedere anche l’eterno cantiere della metro.

E qui viene un altro pezzo della mia riflessione. I torinesi non sono stati in grado di cogliere tutte le opportunità: per loro limiti culturali e incapacità di costruire una loro capacità resiliente. Dovevamo tutti immedesimarci di più con gli atleti fondisti di Torino 2006, e magari fare carte false non solo per averli qui ad allenarsi, ma per acquisire la loro capacità di mettersi in discussione e raggiungere nuovi obiettivi.

La città si è seduta, si è sentita appagata, ha dato spazio a chi viveva di rendita (anche l’immagine turistica di Torino ormai è una rendita), invece di trovare nuovi stimoli e riaprirsi a nuove sfide: un atleta appagato, non è vincente e prima o poi appende le scarpe al chiodo, l’allenatore lo sostituisce in squadra.

Nelle scienze sociali si parla di “regimi urbani” e solo gli ingenui possono gridare al cosiddetto “sistema Torino”. Ogni città del mondo ne ha una ed è una fortuna. Quella di Torino ultimamente funziona malissimo perché è sempre la stessa: è cambiato il conducente ma chi si siede nelle poltrone accanto sono sempre i soliti che per convenienza e sopravvivenza salgono sullo stesso bus alla stessa ora e fanno più o meno le stesse cose. (Siamo mica scemi a perdere un posto bello comodo?)

Nelle scaramucce social dei consiglieri di maggioranza e opposizione io intravedo gli stessi limiti della classe dirigente di ieri (e oggi): l'avversione al rischio, unita ad una capacità di fare e di assumersi le responsabilità che almeno l’altro ieri, negli anni d’oro olimpici, quei sindaci avevano.

Oggi siamo in assenza di una strategia – che è sempre necessaria nel governo di una città, altrimenti si fa semplice amministrazione – e non si ha il coraggio e la capacità di proporne una idea radicalmente diversa dai paradigmi di ieri.

Mi par di capire che oggi l’idea più delineata, tra i frammenti del dibattito politico, è che si vuole una realtà più chiusa, più piccola, che parli il dialetto, che non si metta in affari con sconosciuti. Una piccola realtà di provincia altro che capitale regionale!

In buona sostanza il conducente non sa che strada prendere, i passeggeri si adeguano e si limitano alle ordinarie faccende. Chi resta alla fermata non conta e non è in grado di dire all’autista due cose: “Sei in ritardo e la strada non ti porta in nessun luogo!”

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