Discontinuità prima dell’unità

In questi ultimi giorni è un susseguirsi di appelli affinché il centrosinistra ritrovi le ragioni dell’unità per evitare un ritorno della destra al governo del Paese o la vittoria del M5s alle prossime elezioni politiche. Alcuni di questi appelli sono strumentali e servono unicamente per scaricare le responsabilità della rottura sul proprio interlocutore. È il gioco del cerino. Giudico in questo modo gli inviti a rimettersi insieme di coloro che alla Leopolda urlavano “fuori, fuori...”, di coloro che hanno bollato con l’epiteto di traditori coloro che hanno rotto con il Pd e, infine, di coloro che fino ad una manciata di giorni fa teorizzavano l’autosufficienza del Partito di Renzi.

Mi aveva colpito un’intervista di Piero Fassino il quale, poco prima che si verificasse la rottura, aveva annunciato che in nessun caso il Pd avrebbe fatto accordi con Mdp. In questi giorni sostiene esattamente il contrario. Sia chiaro: in politica cambiare le opinioni è possibile. È anzi auspicabile, ma se si vuole essere presi sul serio, occorre prendere in considerazione le ragioni del proprio interlocutore. In caso contrario gli appelli all’unità non hanno alcuna possibilità di successo.

L’appello all’unità di altri esprime invece una preoccupazione reale per la piega che sta prendendo la situazione. Pochi però si misurano con le cause di questa divisione che viene ridotta a una serie di rancori contrapposti: di Bersani e D’Alema nei confronti di Renzi e viceversa come se alla base della rottura non vi fossero le politiche realizzate dai governi Renzi e Gentiloni e le mutazioni che hanno riguardato l’identità stessa di questo partito.

Il presidente Grasso l’ha detto con grande chiarezza: il Pd di Renzi non ha nulla da spartire con quello di Bersani. Le due questioni, strettamente correlate, del mutamento identitario e delle politiche che sono state realizzate sul lavoro, il fisco e la scuola, hanno fatto perdere al Pd milioni di voti e decine di migliaia di iscritti. Per questo non basta “rimettersi insieme” se non si cambiano le politiche e la leadership del centrosinistra. Questo è puro politicismo. Gran parte di quegli elettori continuerebbero a non andare a votare o a dare il loro voto ad altri partiti e movimenti. Le ragioni dell’impossibilità a trovare un’intesa nascono da questo.

Credo anch’io che non abbia molto senso continuare a discutere del passato e che occorrerebbe misurarsi con le sfide future con l’obiettivo di restituire credibilità al centrosinistra e dar vita a un’alleanza che poggi su solide basi politico programmatiche. Giusto porsi l’obiettivo di tornare al governo, ma per fare che cosa? Per continuare con politiche del lavoro che hanno smantellato il sistema delle tutele e aumentato la precarietà?  No, grazie. Per continuare a proporre una politica fiscale che ha aumentato il contante e ha abolito l’Imu in maniera indiscriminata? No grazie. Per difendere un’idea della democrazia e una legge elettorale che ha sottratto ai cittadini il potere di scegliere chi dovrà rappresentarli in Parlamento? No grazie. Per riproporre politiche di bilancio fatte di bonus, piccole regalie e contributi a poggia anziché destinare le risorse disponibili ad un programma di investimenti pubblici? No, grazie. Per continuare a scimmiottare le politiche della destra o cavalcare il populismo del M5s? No grazie. Per riproporre una leadership divisiva come quella di Renzi nonostante sia reduce da quattro sconfitte consecutive con la giustificazione che egli ha vinto le primarie del Pd? No, grazie.

Perché le primarie del Pd dovrebbero rappresentare un vincolo per un’alleanza di governo di cui dovrebbero far parte anche altri partiti? Se davvero si vuole costruire un centrosinistra nuovo e inclusivo è da questi problemi e di discontinuità che bisognerebbe discutere.  

print_icon