Sacchetti, ambiente e sostenibilità

Negli scorsi giorni è tornata alla ribalta la questione dei sacchetti. Nulla a che vedere con la tempesta mediatica di inizio d’anno ma di rilievo sufficiente per far capire a chi scrive che molti aspetti sono ancora da chiarire e molte conoscenze da promuovere. Sgombriamo subito il campo dalle false informazioni circolate relativamente ai prezzi dei sacchi di frutta e verdura, indicati come superiori ai 10 centesimi di euro. In base ai dati dell’Osservatorio di Assobioplastiche, l’associazione che rappresenta le imprese operanti nel settore della produzione e della trasformazione dei biopolimeri, confermati anche da Federdistribuzione, organismo che rappresenta le imprese della Gdo, al 30 giugno 2018 nelle principali catene della grande distribuzione un sacchetto biodegradabile e compostabile per l’imballaggio di frutta e verdura, di dimensioni standard, costava da un minimo di 0,01 euro ad un massimo di 0.03 euro. Nulla a che vedere con i 10 centesimi - che rappresentano invece il prezzo prevalente del sacchetto per trasporto merci che acquistiamo alle casse – e, soprattutto, nessuna speculazione. Chiarita la vicenda costo, vogliamo verificare se la legge entrata in vigore il 1° gennaio scorso, con cui i vecchi sacchetti frutta e verdura in polietilene sono stati sostituiti da quelli biodegradabili e compostabili a pagamento, ha raggiunto i risultati prefissi.

Sempre secondo l’Osservatorio di Assobioplastiche, nei negozi della Gdo la riduzione del consumo dei sacchetti per il primo imballo alimentare (frutta e verdura, carne, pane, etc) ha raggiunto punte del 40 per cento. Se pensiamo che fino a prima dell’introduzione della legge gli italiani usavano circa 9 miliardi di questi sacchetti in plastica tradizionale, beh, i conti sono presto fatti. Il dividendo ambientale di una legge pensata per togliere dalla circolazione un quantitativo abnorme di manufatti in plastica tradizionale, fonte e causa di enormi problemi ambientali, sostituendoli con quelli biodegradabili e compostabili e utilizzabili per il riciclo del rifiuto umido, è gigantesco. Che il pianeta versi in uno stato precario è chiaro a tutti.

In poco più di un secolo, grazie alle scoperte della scienza e ai progressi tecnologici, l’umanità ha decisamente migliorato la qualità della propria vita e uno dei fenomeni che hanno permesso il progresso è certamente stata la straordinaria crescita delle materie plastiche. Grazie al loro basso costo e alle loro molteplici qualità, le materie plastiche hanno invaso la nostra vita quotidiana in settori diversi come imballaggio, costruzioni, trasporti, apparecchiature elettriche ed elettroniche, mobili e articoli per il tempo libero. Purtroppo, in molti casi, questi miglioramenti si sono verificati a spese del “capitale naturale” con conseguenze pesanti sulla salute del pianeta e sulla quantità di risorse naturali necessarie per soddisfare esigenze sempre più pressanti ed elevate. Il progressivo esaurimento delle materie prime non rinnovabili, l’esplosione demografica, la crescente domanda di prodotti responsabili e rispettosi dell’ambiente in grado di limitare l’inquinamento da plastica di fiumi, mari e oceani – se possibile invertendo la rotta – hanno così creato un ambiente favorevole allo sviluppo di nuovi modelli produttivi, l’economia circolare, per la quale non deve esistere rifiuto perché tutto deve tornare ad essere risorsa, e soluzioni alternative come, appunto, le bioplastiche con cui sono fatti i nostri sacchetti.

Per bioplastiche si intendono quei materiali e quei manufatti, siano essi da fonti rinnovabili che di origine fossile, che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili. La biodegradabilità è la capacità di un materiale di essere degradato in sostanze più semplici mediante l’attività enzimatica di microorganismi. Al termine del processo di biodegradazione le sostanze organiche di partenza vengono trasformate in molecole inorganiche semplici: acqua, anidride carbonica e metano, senza il rilascio di sostanze inquinanti. La compostabilità – che riguarda il fine vita di un prodotto – è la capacità di un materiale organico di essere riciclato organicamente assieme all’umido trasformandosi in compost mediante il compostaggio, un processo di decomposizione biologica della sostanza organica che avviene in condizioni controllate. Al termine del processo di compostaggio si ottiene un prodotto biologicamente stabile, inerte e inodore in cui la componente organica presenta un elevato grado di maturazione evoluzione. Ricco in humus, in flora microbica attiva e in microelementi, il compost è un prodotto di impiego agronomico (fertilizzante per florovivaismo, colture praticate in campo) e soluzione ideale contro la desertificazione dei suoli e l’impoverimento di carbonio. Il concetto di bioplastica si applica dunque a quei prodotti che nel fine vita garantiscono la riciclabilità organica certificata nei diversi ambienti (es. compostaggio, digestione anaerobica, suolo). L’uso di fonti rinnovabili, meglio se provenienti da sottoprodotti e scarti, è parte integrante, ma non sufficiente, di una bioplastica. L’uso di materie prime rinnovabili, infatti, è possibile anche nella produzione di polimeri tradizionali, per esempio il cosiddetto polietilene verde che si comporta, in fine vita, come quello da fonte fossile e non presenta dunque caratteristiche di biodegradabilità e compostabilità. Questi prodotti possono essere qualificati come “plastiche vegetali”, per evitare confusione con le bioplastiche.

L’aspetto più controverso delle plastiche tradizionali è lo smaltimento e il riciclo dei manufatti utilizzati per applicazioni a contatto con alimenti o altri residui vegetali, come nel caso specifico del packaging alimentare, dei teli per le coltivazioni agricole di fragole, meloni, riso, aspargi (pacciamatura), ovvero nei casi in cui il materiale giunge al fine vita fortemente contaminato da residui organici. In questi casi il corretto riciclo del manufatto esigerebbe un lavaggio preliminare (determinando costi aggiuntivi); in sua mancanza il manufatto viene destinato all’incenerimento o alla discarica. È in questi casi che le plastiche biodegradabili e compostabili possono rappresentare un’alternativa ambientalmente sostenibile, offrendo soluzioni che comportano la riduzione dei costi gestionali e di quelli ambientali, secondo una visione circolare, antitetica al modello lineare produzione-consumo-smaltimento. Attualmente le applicazioni in bioplastica più diffuse sono: - sacchi compostabili per la raccolta della frazione organica del rifiuto e “carrier bags” (che possono, a loro volta, essere utilizzati come sacchetti per la raccolta della frazione organica del rifiuto), che contribuiscono ad aumentare il volume del rifiuto organico raccolto, a ridurre le quantità di rifiuto smaltito in discarica e a migliorare la qualità del compostaggio. - film biodegradabili per la pacciamatura agricola che possono essere lavorati nel terreno dopo l’utilizzo, contribuendo alla riduzione della quantità di lavoro e dei costi economici e ambientali connessi con le fasi di raccolta e smaltimento dei teli tradizionali - prodotti filmati, stampati ed estrusi per il foodware, il packaging alimentare e il settore agricolo (che possono essere lavorati in compostaggio). In Italia esiste una filiera delle bioplastiche rappresentata da circa 250 aziende tra produttori di materia prima e trasformatori. Un comparto industriale giovane, fortemente improntato all’innovazione - grazie anche alle sue connessioni con il mondo della ricerca - che genera costante crescita occupazionale e che ha conquistato una leadership di mercato a livello internazionale. In questo quadro, una legislazione che incoraggi la diffusione di materiali a basso impatto ambientale, che rispettino standard e certificazioni in materia di biodegradabilità e compostabilità, in una visione circolare dell’economia, diventa volano di sviluppo con un dividendo ambientale, economico e sociale.

*Gian Carlo Locarni, responsabile nazionale dipartimento ambiente Lega Salvini Premier

 

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