Food for change?

In primo piano un pugno chiuso che stringe al suo interno una carota o in alternativa un cucchiaio. L’immagine, di cui Torino è tappezzata da qualche giorno, campeggia ovunque portando alla mente quei manifesti caratteristici degli anni ’70 che annunciavano i concerti del gruppo musicale cileno: gli Inti Illimani.

Il logo affiancato all’ultima edizione di Terra Madre è molto accattivante, specialmente in questo triste periodo intriso di nostalgia nazional-fascista, e ricorda alcune realtà sparse nel vecchio continente che fanno del cibo, e del suo consumo a tavola, un simbolo della lotta per cambiare la società in termini solidali sin dai suoi fondamenti.

Lo stesso slogan adottato dalla rassegna biennale racchiude un forte e inequivocabile messaggio: la volontà di trasformazione delle capitaliste comunità occidentali tramite gli alimenti, ossia “Food For Change”. Infatti a detta del suo patron, Carlin Petrini ideatore di Slow Food, attraverso le specialità culinarie del pianeta è possibile mutare pelle, cambiare il sistema entropico in cui noi tutti viviamo forzatamente.

Una trasformazione auspicata pure da molti chef del Vecchio Continente, come dimostra la scelta di alcuni cuochi prestigiosi parigini di aderire, sin dai primi anni 2000, a circuiti alternativi, incentrati sulla preparazione di piatti gustosi e sani ma serviti a prezzi contenuti. Anche questi ultimi hanno adottato, per i loro rinomati bistrot, marchi inequivocabili e facilmente riconoscibili poiché raffiguranti un pugno chiuso che abbranca una forchetta, oppure un pugno chiuso con tanto di ortaggio: grafica perfetta per rimarcare la grande differenza etica che anima i loro ristoranti rispetto agli altri.

Nei bistrot appartenenti a queste catene non si degustano prodotti di qualità scadente ma ottimi alimenti, creati senza sfruttare i lavoratori e venduti a prezzo equo. Mentre in alcuni Paesi la ristorazione “dal volto umano” rappresenta un dato concreto quanto incontestabile, anche se è facile immaginare come poche persone possano recarsi nel cuore di Parigi per assaggiare menù popolari, in Italia la situazione si complica un tantino nel caso in cui si provi a rapportare la realtà dei fatti con le campagne pubblicitarie di stampo egualitario.

A slogan di modello sociale spesso corrispondono prezzi inaccessibili, nonché modelli di benessere impossibili anche solo da immaginare per tutti coloro che vivono in condizioni di difficoltà economica: il pugno chiuso di Terra Madre nasconde purtroppo qualche piccolo velo d’ipocrisia. Da una parte infatti l’intervento a favore dei produttori locali che hanno resistito alle multinazionali agrarie è lodevole, quanto importante, ma va pure rimarcato come dall’altra non sia minimamente rintracciabile una corrispondenza del messaggio ideologico (“Food for change”) con la dura quotidianità in cui si dimena gran parte della popolazione che ospita la rassegna stessa.

A Torino, come ovunque in Italia, i costi della vita sono lievitati sensibilmente. Fare normalmente la spesa è atto riservato esclusivamente a coloro che possono permettersi dei veri e propri lussi. Anche in Francia una corposa porzione di cittadini, se non erro circa il 20 per cento, non può procurarsi la frutta e neppure la verdura. Nel nostro Paese ogni giorno migliaia di persone confrontano i prezzi dei vari punti di distribuzione al minuto cercando quelli più convenienti, anche a costo di percorrere lunghe distanze per gli acquisti: unico modo per poter accedere alle pesche, alle pere e all’uva.

La carne, il pesce e le proteine sono al di là delle possibilità finanziarie di molti nostri connazionali ed ancor più sono irraggiungibili i prodotti sostitutivi, tipici della catena alimentare vegana. Il Censis, in una recente indagine, rende noto come negli ultimi 7 anni la spesa alimentare nel Bel Paese si è contratta in media del 12,2%, confermando così una sintesi elementare: meno si guadagna e meno si spende nella scelta dei prodotti da tavola (fondamentali per la sopravvivenza individuale).

“Il futuro del cibo nel mondo”, ribadisce il comunicato stampa redatto dagli organizzatori di Terra Madre alla vigilia della sua inaugurazione. Parole condivisibili, ma non è dato sapere chi potrà usufruire di quanto la terra in futuro fornirà all’umanità. Lo stesso atto sociale del passare una serata in compagnia al ristorante è sovente frutto di calcoli, portafoglio alla mano, e spossanti valutazioni delle priorità familiari essenziali.

Un primo gustato presso una qualsiasi osteria torinese non costa meno di 8-10 euro (al pari delle antiche ventimila lire) mentre il secondo piatto ha raggiunto cifre stellari e i dessert obbligano il cliente a scucire non meno di 5/6 euro. La pizza, un tempo considerata quale “modo economico” per trascorrere la serata insieme ai propri amici, sta raggiungendo prezzi record grazie alla nascita di locali (di fatto esclusivi) dove gli ingredienti sono lievito madre e farine antiche (il tutto con la certificazione di Slow Food): la Margherita di conseguenza può raggiungere il costo di una decina di euro (il noto chef Cracco propone la pizza classica a 16 euro).

Anni addietro si sarebbe catalogato il tutto con la frase “Insulto alla miseria”, oggi al contrario si prende atto di come i locali del centro città siano sempre pieni di fruitori pronti a sostenerne i costi: una movida fatta di liberi professionisti ma anche di tante persone che rinunciano a spese quotidiane essenziali per trascorrere il sabato sera con le gambe sotto la tavola imbandita.

Locali di tendenza vengono inaugurati di continuo. Ristoranti e pizzerie dai design accattivanti propongono menù esclusivi dalle materie prime ricercate poiché a chilometro zero, oppure provenienti da zone del mondo in cui le cooperative etiche (i presidi Slow Food) si sono imposte sullo sfruttamento delle multinazionali alimentari e della distribuzione. Quest’ultimo è un grande risultato da cui deriva l’affrancamento di migliaia di persone dalla schiavitù moderna, una narrazione importante affidata ogni due anni a Terra Madre, ma che si scontra con un Occidente dal sistema sociale agonizzante.

Il costo del biglietto della kermesse alimentare è per tante persone la prima barriera invalicabile. Le stesse gare ai fornelli tra vip torinesi, a cui i quotidiani hanno dato grande risalto, si trasformano nell’ennesimo schiaffo a coloro che mettono insieme il pranzo con la cena grazie all’esistenza dei discount.

Nei negozi Eataly, fondati con il beneplacito di Slow Food, si legge “Chi ruba è un ladro e noi lo denunciamo”: una frase lapidaria (non riprodotta sulle pareti di ipermercati o negozi di prossimità) contrastante con quel pugno chiuso che brandisce una forchetta, ma anche contradditoria con la nascita stessa di Slow Food che, se ricordate, è rintracciabile nella rubrica “Gambero Rosso” (ospitata originariamente dal quotidiano “Il Manifesto”). I fondatori del “Gambero Rosso” non avrebbero mai accusato di furto coloro che rubano prodotti alimentari per fame.

Ovunque gli ultimi andrebbero aiutati, e non denunciati per la sottrazione di cibo dagli scaffali di un market. Una certa pseudo cultura progressista ha dimenticato davvero i suoi fondamenti, creando così contraddizioni eclatanti al suo interno nonché imbarazzo in chi ancora (come chi scrive) ci crede.

“Chi ruba è un ladro” poiché commette un reato perseguibile dalla Giustizia, ma chi affama la moltitudine che non arriva a fine mese si macchia di delitti molto più gravi.

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