La cultura della sicurezza

“È anche la geografia sempre più spesso specchio del disagio, delle diseguaglianze economiche che poi alimentano il populismo nelle democrazie occidentali, come testimonia dalla Brexit invocata e votata nelle aree meno urbanizzate e alla rivolta dei gilet gialli nata ed esplosa nella Francia rurale”, così Mauro Marino, candidato alla segreteria regionale del Pd. La geografia è specchio del disagio che alimenta il populismo. È vero, una geografia che si materializza nel microcosmo delle periferie delle città, che fa diventare tali anche le realtà più lontane, rurali e montane. Lo specchio del disagio lo troviamo nella marginalità e nella fragilità del tessuto economico, a causa della crisi, della disoccupazione e della diminuzione del reddito. La troviamo nella fragilità del tessuto sociale, culturale, addirittura morale, di una realtà che in questi anni ha visto crescere la distanza dalle aree in cui, anche in questi anni, si è affermato un maggiore benessere dovuto ai frutti buoni della rivoluzione informatica e delle liberalizzazioni. È nella realtà periferica, segnata da profonda e cronica fragilità, che si manifesta in modo dirompente il problema della sicurezza. La sicurezza che viene meno per l’incertezza sul domani, per il degrado dei quartieri e degli spazi pubblici, che diventano l’ecosistema del micro crimine e di chi vive ai margini della legalità. In questi luoghi la sicurezza, o meglio l’in-sicurezza, diventa paura, diventa odio per gli stranieri e diventa, odio per chi la pensa diversamente, odio per la politica e tutto quello che viene etichettato dai mass media, dai social e da abili strateghi politici, come nemico.

Nell’Italia pentaleghista la paura e l’odio sono ormai pienamente da considerare la dimensione sociale e culturale della sicurezza, il suo linguaggio che in realtà è linguaggio della in-sicurezza. Sì, la sicurezza ha una dimensione culturale perché, proprio la cronaca di questi giorni, ci dice che la sicurezza non è solo la “pubblica sicurezza”; ma appartiene ad una dimensione antropologica dei bisogni umani, della creazione di patrimonio umano di valori, conoscenza e competenza (sic!), che consente di sviluppare la civiltà e la società, il progresso. E cultura è anche l’in-sicurezza, la paura e la violenza che è sempre concomitante e correda, in modo negativo, il “bisogno di sicurezza”. Una cultura che si alimenta di tante subculture che nascono dal degrado e dalla marginalità sociale in cui è relegata la vita e la convivenza nelle periferie del mondo globalizzato e trasformato dalla rivoluzione digitale.

La cultura dell’in-sicurezza nasce certamente dallo squilibrio e dalle ineguaglianze economiche, che in questi anni si sono allargate e radicalizzate. La cultura della paura scavalca il problema del censo e, quando si diffonde, riguarda tutti. Infatti essa non nasce semplicemente da un problema di diseguaglianza e di mancanza di equità. O meglio è un problema di equità (o iniquità), ma più profondo, che riguarda un modello intero di sviluppo e non un unico fattore. Nasce da un problema che riguarda la qualità della vita fuori dai centri, fuori dalle realtà dove intervengono i benefici della globalizzazione e della rivoluzione digitale; in quelle realtà periferiche e marginali, dove arrivano invece i le macerie e i subprodotti di quei processi che altrove portano maggiore benessere e ricchezza. Non basta quindi creare nuovo reddito se questo non si accompagna a un nuovo disegno che riguarda il modello, la qualità della vita e la qualità dello sviluppo dal centro alla periferia, un nuovo welfare e una nuova geografia. Anche perché oggi, molto spesso, le nuove opportunità non si accompagnano con la qualità della vita, come invece accadeva negli anni gloriosi della crescita e del boom economico. Il populismo ha intuito e captato questa necessità, ma l’ha trasformata in strumento di propaganda, alimentando le tensioni e i sentimenti negativi che questa produce, al fine di creare consenso e potere. Porsi il problema della sicurezza è oggi porsi il problema della qualità della vita di chi vive fuori. Perché la sicurezza, quando diventa pubblica sicurezza, e repressione, quando interviene dopo che i reati vengono commessi; la sicurezza in questa fase diventa un elemento dell’in-sicurezza e non la soluzione.

La sicurezza, intesa esclusivamente in termini di pubblica sicurezza, non agisce come fattore di sicurezza, perché la pubblica sicurezza rappresenta l’estrema ratio della filiera delle azioni che servono a creare sicurezza. Il momento repressivo non può essere la regola, ma l’eccezione. Se questo è la regola vuol dire che non c’è sicurezza. La sicurezza è un “bene pubblico” e un valore aggiunto alla qualità degli ambienti sociali che accresce la vivibilità e l’appetibilità del luogo sotto tutti gli aspetti, economici e sociali. La sicurezza come bene pubblico si crea con la promozione della coesione sociale e la prevenzione. A questo fine sono utili anche gli strumenti resi disponibili della tecnologia (non è vero che le telecamere non servono!) e, in particolare, i social che possono trasmettere in tempo reale immagini, voci e messaggi. Ma la sicurezza bene pubblico è sicurezza partecipata, di cittadini che apprezzano la convivenza nella legalità e che collaborano al bene di tutti, al decoro come alla cura dell’ambiente. La convivenza che nasce dal prendersi “cura” della città, dei luoghi e degli spazi fisici ed istituzionali. Associazioni di cittadini, soggetti privati dell’economia e della cultura, insieme alle istituzioni, in particolare quelle proposte alla gestione della sicurezza, dai vigili urbani alle Forze dell’ordine. Solo così nasce il controllo del territorio, che è controllo spontaneo e controllo da parte degli operatori della sicurezza; ed è solo così che il momento repressivo diventa l’eccezione e non la regola. Questa forma di gestione della sicurezza, forma che Minniti ha avuto il merito di assumere a modello nazionale, ma che già esisteva nel modello si “sicurezza integrata” delle leggi regionali; questo modello di sicurezza non è né di destra né di sinistra, ma è modello di una civiltà che vuole farsi carico dei problemi e affrontarli attraverso gli strumenti della democrazia e della partecipazione, che fa crescere i valori della cittadinanza e non cede alla manipolazione dei sentimenti generati dalla paura.

Una cultura della sicurezza fondata non sulle ansie e sulle paure, ma sulla condivisione, la legalità, la partecipazione, i valori e la solidarietà. Ci auguriamo che questo modello possa finalmente entrare a pieno titolo negli impegni e nei prossimi programmi, anche regionali, della nuova sinistra riformista, restia fino ad oggi ad ogni argomento che non sia di natura redistributiva o di una crescita, per così dire, intesa in modo fortemente “fordista”. Anche perché la sicurezza è senz’altro una delle tante domande che provengono da quei soggetti che in questi giorni abbiamo visto in prima fila nelle piazze perché è una sicurezza che può essere creata soltanto con maggiore sviluppo, maggiore qualità delle nostre città accompagnata da maggiore senso di responsabilità e di partecipazione alla vita pubblica. In questo senso ad un elenco dei “Sì” per una sinistra riformista e liberale non può mancare un “sì sicurezza”.

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