Il libro nero del Salone

Ogniqualvolta mi imbatto in commenti o articoli riguardanti il Salone del Libro di Torino, un forte senso di sconforto mi sale interiormente pervadendomi di grande amarezza.

In questo nostro Piemonte la classe dirigente denuncia periodicamente la crisi occupazionale insieme al rischio di isolamento geografico dall’Europa. L’unica soluzione alla débâcle subalpina che la politica propugna con grande energia risiede nell’inaugurare cantieri, grandi e grandissimi, rimarcando di continuo l’importanza catartica della madre di tutte le opere: il Tav.

Sull’altare delle infrastrutture logistiche viene quindi sacrificata qualsiasi alternativa di sviluppo, affossando sistematicamente tutto quello che potrebbe essere davvero una fonte di sviluppo e di lavoro per i cittadini piemontesi. Secondo alcune statistiche ufficiali il settore “Cultura” nei prossimi anni sarebbe in grado di offrire occasioni di impiego per migliaia di persone: dato strabiliante visto il profondo degrado in cui versano le ricchezze del territorio insieme ai beni architettonici storici della vilipesa Italia.

Addirittura il nostro Salone Internazionale del Libro è caduto nella devastazione che abbraccia tutte le attività non vicine all’industria del cemento. La kermesse libraria è in sintesi la cartina tornasole dei pasticci di cui è autrice la politica quando mette le mani nelle fondazioni, oppure nei consigli di amministrazione di enti pubblici.

Il brutale licenziamento di Rolando Pecchioni da presidente della Fondazione per il Libro è avvenuto nel 2015 ad opera di alcuni assessori regionali, gli stessi che poche ore prima si erano complimentati con lui per il successo dell’edizione appena terminata. La decisione di silurare il patron dell’evento ha coinciso con una lenta caduta della manifestazione. Inghiottito da un continuo clima di incertezza, il Salone è salito alla ribalta delle cronache per il debito che lo affligge, ma la carta stampata cittadina hai mai voluto evidenziare che il creditore principale siede nel Consiglio di Amministrazione, e che lo stesso vale per il maggiore debitore nei confronti della Fondazione medesima.

La Regione Piemonte e la Compagnia di San Paolo avrebbero potuto trovare una soluzione che fosse in grado di rassicurare gli editori nonché quei lavoratori un tempo alle dipendenze dell’ex presidente Picchioni, invece la politica regionale ha scelto di avviare un vorticoso ballo di nomine (e susseguenti tensioni) che a loro volta hanno dato nuovo ossigeno all’ipotesi di uno scippo milanese della grande rassegna editoriale.

Solamente la pessima location scelta dai meneghini per collocare la propria esposizione ha salvato l’edizione nostrana, da anni destinata ad arrivare sempre con il fiato corto all’apertura dei battenti. Malgrado il crescente successo di pubblico non è dato sapere se il Salone avrà un futuro, anzi nei primi mesi dell’anno è oramai tradizionale la polemica sul marchio, sul debito ed eventualmente sulla sospensione delle attività.  

Sconcerta la datata proposta di Chiamparino di sospendere per un biennio la fiera degli editori, ipotesi forse tramontata per motivi elettorali del 2016, ma ancor più atterrisce la scomparsa del vero patrimonio della Fondazione per il Libro, ossia i suoi dipendenti.

Una sorta di drammatica diaspora ha infatti colpito le menti e le braccia di questo fiore all’occhiello torinese. I lavoratori dell’ente sono stati sparpagliati ovunque, togliendo loro ogni certezza di riassunzione sulla base di contratti non precari: prestare ascolto delle loro vicende lavorative lascia basiti.

Oggi il personale che ha costruito il Salone del Libro, insieme a tutto il suo know how e alla sua esperienza, giunge sfinito innanzi al baratro della disoccupazione. I dipendenti, dopo essere stati “affidati in prestito” a vari enti culturali, sono costretti a prendere atto che i contratti di impiego sono infine giunti alla scadenza e solo qualche misero bando è stato indetto per la riassunzione di una loro piccola parte presso il Circolo dei Lettori.

Sovente si accusano i 5 Stelle di essere impreparati ad amministrare e incapaci di gestire la politica, cosa in alcuni casi vera, ma coloro che hanno causato questo disastro come possono essere qualificati: geni del Male, politici in mala fede o incapaci a loro volta.

Solamente pochi anni addietro il “Padre” del Salone ipotizzava il coinvolgimento di ampie parti del territorio provinciale e regionale nella manifestazione, immaginando un evento perenne che trovasse sedi estive e anche invernali. Attualmente, dopo rumorosi cambi al vertice e decimazione consapevole del collettivo di lavoro, non è dato neppure immaginare cosa accadrà tra qualche mese.

Milano si prepara al proprio riscatto, aiutata forse inconsapevolmente dai quadri politici piemontesi, mentre Torino potrebbe essere alla vigilia di un’altra occasione mancata. L’importante per chi governa i meccanismi della città è dare fiato alla “Madamine” con la loro proposta, caduta nel vuoto un attimo dopo averla espressa, di comprare il marchio stesso ma ignorando al contempo il destino dei dipendenti della Fondazione.

Sul finire del 2018 una cordata di fornitori ha acquisito la griffe “Salone del Libro” grazie al sostegno della fondazione San Paolo (a sua volta creditrice dell’ente di cui era co-amministratrice), privatizzando però di fatto la grande iniziativa editoriale. Un nuovo inizio che ha il sapore di un risultato scontato: per la classe politica “Privatizzare è bello”, anche quando i fatti continuano a dimostrare ostinatamente il contrario.

L’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte ha un capitolo in meno di cui occuparsi (il Salone non è mai stato tra le sue simpatie finanziabili) e potrà dedicarsi ancor più all’amato Verbano-Cusio-Ossola, scampato da poco alla secessione in favore di Milano.

Milan l’è sempre un gran Milan”: Torino se ne faccia una ragione, la politica del resto lo ha capito da un pezzo.

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