L'OPINIONE

Tav, quello studio non sta in piedi

L'analisi costi benefici poggia su una serie di errori tecnici nelle valutazioni. A partire dal fatto che calcola i costi complessivi (sostenuti anche da Francia e Ue) e li contrappone ai benefici per la sola Italia

Premessa. Non sono un esperto di ACB (Analisi Costi Benefici) trasportistiche. So però cosa è un’analisi costi benefici e so cosa è un processo decisionale. Pertanto, mi limito a esprimere perplessità generali sull’uso di questo approccio alla ACB nello specifico contesto decisionale della TAV.

Oggi, sui giornali, è uscita un’anticipazione secondo la quale l’analisi commissionata dal MIT indicherebbe uno sbilanciamento di 7 miliardi di euro tra costi e benefici. Risultato curioso, quando si pensa che l’opera, all’Italia, costerà solo 4,7 miliardi. Come è possibile tutto ciò?

La risposta è semplice. In tutta evidenza, chi ha fatto i conti non ha considerato che i cofinanziamenti francesi e UE erano già acquisiti e non erano in discussione (in termini tecnici, si direbbe che “non sono rilevanti ai fini della decisione”). Quando si prendono decisioni, si viene sovente sviati dai “costi affondati”, cioè da quanto si è già speso (si parla in gergo di “sunk cost fallacy”). Evidentemente qui si è fatto un errore simile, ma sul lato delle entrate già acquisite. È come se mio fratello mi dicesse “il prossimo weekend non andare al mare con la tua Golf, ti presto la mia Audi A4” e io dicessi di no, confrontato i costi chilometrici ACI della Golf e della A4 (dimenticando che, prendendo l’auto di mio fratello, io dovrei sostenere solo i costi della benzina).

La cosa non mi ha in realtà sorpreso, perché nei giorni scorsi membri del gruppo di lavoro avevano pubblicamente dichiarato che:

1. l’analisi da loro fatta era identica a quelle che fanno da decenni (evidentemente trascurando che, questa volta, la si stava facendo a progetto approvato, finanziato e avviato);

2. era un’analisi “europeista”, nel senso che considerava costi e benefici per tutti gli europei, e non solo per l’Italia.

Ma questo è un evidente errore, perché il committente in questo caso non era né la Francia, né la UE (che infatti non hanno chiesto nessuna analisi), bensì il governo italiano. Pertanto, vista la collocazione dell’analisi nel processo decisionale, il gruppo di lavoro avrebbero proprio dovuto fare un’analisi “sovranista”, guardando ai benefici italiani a fronte dei costi di parte italiana. Un’analisi di questo tipo è probabilmente difficile da fare (come scindere i benefici per nazionalità?). Però, l’impossibilità di effettuare un’analisi corretta, non giustifica la scelta di farne una errata!

Questa scelta metodologica si giustifica solo se l’obiettivo di questa ACB “globale” (non enucleando la parte italiana) fosse quello di convincere Francia e UE a ritirare l’ok all’opera e il loro cofinanziamento. Ma, davanti al loro probabile rifiuto, all’Italia non rimarrebbe che confrontare i costi ancora da sostenere (3-4 miliardi?) con i probabili costi connessi alla decisione di non proseguire (penali, restituzioni, ripristini, ristrutturazioni al vecchio tunnel del Fréjus, per circa 3-4 miliardi?) e concludere che “alla fine, ci costa di meno finirla che interromperla”.

Questo è il problema più immediato di questa analisi, se sarà confermata. Ma in realtà ciò non basta. Chi ha fatto l’ACB ha nei giorni scorsi dichiarato di non aver considerato l’opera come “major barrier crossing”. Per quanto ne so, nelle raccomandazioni della Work Bank, ciò avrebbe portato alla necessità di effettuare un’analisi ben più ampia, guardando all’impatto economico complessivo (“wider economic impacts”), e questa omissione è stata negli scorsi giorni più e più volte contestata da diversi analisti, in particolare da economisti. Gli estensori dell’analisi hanno dichiarato che ciò si giustificherebbe perché “tra Francia e Italia di “ponti” ce ne sono già tre su strada, un altro aprirà tra pochi mesi e c’è anche una ferrovia seppure “malandata””. Sulla appropriatezza di questa scelta è doveroso avviare una discussione perché, così facendo, la ACB ha evitato di dover considerare l’impatto sulla competitività dell’Italia, con le criticità che provo a spiegare di seguito.

Non considerando l’impatto economico in termini di equilibrio generale, la ACB rimane una valutazione “marginale”, che non sfiora nemmeno aspetti assai critici, quali:

1. l’impatto sulla competitività comparata dei territori interessati (Nord Italia) e di quelli che potrebbero divenire un corridoio E-O sostituto (Monaco-Stoccarda-Strasburgo), con relativo e progressivo spostamento di attività economica.

2. il rischio che il traffico su gomma venga disincentivato a livello UE, accentuando il fenomeno di cui sopra.

3. la minore resilienza del sistema dei trasporti, se i collegamenti esistenti dovessero avere dei problemi (es. la probabile chiusura del Monte Bianco per svariati mesi).

O questi (e altri rischi) vengono valutati a parte, o va detto esplicitamente che non ci sono. Siccome abbiamo ormai capito che questi aspetti non sono stati considerati, va detto chiaramente che la valutazione politica che sta sopra l’ACB non è da intendersi come irrazionale “arbitrio del principe”, ma come razionale valutazione di scenari e rischi reali, che però sono esclusi da un modello per usa natura limitato. In questo caso, l’eventuale saldo negativo della ACB (con i suoi limiti) è da intendersi semplicemente come un “premio assicurativo” o un “prezzo ombra” che si paga per coprirsi da quanto è “possibile ma non conoscibile”. Supponiamo che la ACB venga negativa per X miliardi. Il punto diventa: evitare lo scenario di un Nord Italia che perde competitività e declina a causa di questo collo di bottiglia a Ovest vale X miliardi? Provo a spiegarmi con un esempio: devo scegliere un’auto tra la VW Golf e l’Audi A3, auto pressoché identiche, con differenza tra i costi complessivi (acquisto, assicurazione, valore dell’usato) = 4.000 €. Io penso che Audi sia più affidabile (ma non posso conoscere le curve di affidabilità) e mi permetta di aumentare il mio status sociale e il mio successo con le ragazze (oggettivamente difficile da modellare). Allora, prendere l’Audi sarà del tutto razionale se reputo 4.000 € un prezzo congruo per coprire questi due aspetti, non inclusi nella ACB

A questa osservazione si potrebbe controbattere dicendo che ACB va vista in un’ottica di risorse scarse. Se io valuto più opere con lo stesso metodo “marginale”, le relative limitazioni contano poco, perché comuni a tutte le opere, e quindi userò per tutte l’ACB, e sceglierò solo quelle con ACB alto. Questo sarebbe corretto, ma solo se le alternative tra cui scegliere hanno impatto e natura comparabili, e non ci sono effetti incrociati (es. se ho soldi per rifare 5 ponti in Piemonte e devo scegliere tra 10 candidati). Dire che potrei usare i soldi TO-Lyon per fare il Mercantour Cuneo-Nizza è un conto. Dire che li uso per rifare 10 ponti in Piemonte o per fare la metropolitana a Torino ha meno senso. Provo nuovamente a illustrarlo con un esempio. Per una famiglia ha senso fare l’ACB per decidere tra l’effettuare future vacanze in hotel e il comprare un camper. Avrebbe meno senso usare l’ACB per decidere tra il camper e risparmiare soldi per la futura università dei figli.

A tutto ciò si aggiunge il tema dell’aver considerato le minori entrate per lo Stato (accise e pedaggi autostradali) come costi dell’opera per lo Stato. Questo è stato molto criticato, anche se in realtà si tratta probabilmente di una partita di giro, perché corrispondenti a minori costi per la collettività, con un effetto netto nullo. Però, alcuni studiosi di Diritto tributario hanno sottolineato quanto sia criticabile una scelta del genere, in quanto la tassazione deve adeguarsi al sistema economico, e non viceversa. Il rischio, infatti, è che le entrate per lo Stato (che per loro natura incidono su tecnologie e modelli di business esistenti) vadano a determinare le scelte pubbliche e, quindi, a far recedere il cambiamento tecnologico.

In estrema sintesi, il mio parere è che uno sguardo più ampio al problema, con il coinvolgimento non solo di “ingegneri dei trasporti”, ma anche di economisti e giuristi, avrebbe consentito di valutare in modo più compiuto e meno parziale un’opera così importante per le prossime generazioni. Purtroppo, la monocoltura disciplinare in cui prosperano gli accademici qualche volta può giocare brutti scherzi.

*Marco Cantamessa, professore ordinario al Politecnico di Torino presso il dipartimento di Ingegneria gestionale e della produzione

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