Torino, la bellezza che unisce

Il diritto alla “Bellezza” viene sovente banalizzato: ridotto alla libertà di esprimere inutili considerazioni in merito a fotografie e copertine patinate di riviste altrettanto vane.

“Bello” per molti è un volto su cui è intervenuto spietatamente il bisturi di un chirurgo estetico. “Bello” per altri è il passaggio roboante di una Ferrari, che sgomma sul pavé delle aree pedonali cittadine.

Abbandonando il consumismo e l’effimero, insieme a tutta l’illusione che questi normalmente generano, il “Bello” si ammanta di oggettività consegnando alle persone una consapevolezza: la bellezza è componente essenziale per la sopravvivenza della comunità di cui fanno parte.

Le metropoli sono grigie per definizione, frenetiche, poco adatte alla socializzazione poiché profondamente ostili alla simbiosi dell’essere umano con l’ambiente circostante. Il lusso infatti non è sinonimo di “Bello”, come non lo sono i negozi chic e neppure la frequentazione delle vie del centro da parte di individui che sfoggiano abiti griffati.

Al contrario, è meraviglioso un albero rigoglioso, il cui fogliame muta colore in autunno, così com’è stupenda una strada urbana curata e vissuta dai suoi abitanti. Vivere il territorio si traduce sempre in aggregazione e inclusione; condividere lo splendore genera unione e quindi solidarietà. L’opposto, ossia l’orrore, incattivisce risvegliando un’ostilità che spesso sconfina nella rabbia senza fine.

Gli eventi culturali stimolano la bellezza, anche quando nell’atto creativo si fa sfoggio di irriverenza e provocazione. L’ultima edizione di Artissima si è palesata a Torino parcheggiando un bus sul tetto dell’edificio sito in via Lascaris/via Dellala. Il mezzo oscillava inoltre dall’alto verso il basso per dare vita all’effetto di un equilibrio molto precario. Una performance che ha incuriosito tanti cittadini, i quali hanno osservato l’istallazione e fotografata da diverse angolazioni.

A quei torinesi, purtroppo, è bastato percorrere pochi metri per vedere la bellezza svanire sotto i colpi dell’abbandono. Il trincerone prodotto dal cantiere di via Arsenale segna una sorta di confine oltre il quale la grazia non può accedere. Nel centro storico di Torino alcuni valori sembrano infatti disintegrarsi nel nome del “Denaro”, dell’insaziabile fame di soldi.

Le vie della città antica vedono confondere i tratti architettonici con una folla composita, fatta di falsi sordomuti che chiedono sottoscrizioni e contributi utili solo al personale arricchimento, di falsi mendicanti impegnati nello spillare monete a residenti e turisti, di veri questuanti lasciati in balia della generosità di chi incontrano (passanti sovente confusi nel tentativo di distinguere i truffatori dai veri bisognosi) poiché ignorati dal welfare comunale.

A questa umanità si sommano i promoter di associazioni in cerca di sostegno tramite bonifici periodici, individui con pettorina che tentano approcci allungando la mano destra in segno di cordiale saluto: una mano che in realtà cerca solamente di raggranellare qualche banconota ogni mese. Un gesto di vicinanza trasformato in strumento utile alla raccolta di contante.

Il centro storico annichilisce il rapporto umano, riducendo tutto a un chiedere e offrire denaro, mentre le sue piazze si trasformano ogni giorno di più in vespasiani all’aperto e luoghi di bivacco per senza tetto nostrani e stranieri. I beni comuni, della collettività intera, si piegano alla miseria vera e a quella presunta in cui versa un numero indefinito di donne e uomini (nella sola Galleria San Federico dormono per terra una ventina di persone).

Patrimonio culturale e bellezza diventano compagni di naufragio di molte vite alla deriva: perenni ostaggi di una continua richiesta di denaro, di moneta, di soldi.

Le istituzioni ancora una volta guardano altrove, preferendo non vedere. Scordano deliberatamente la loro missione di protezione sociale, a cui sono chiamate, e nel farlo dimenticano la bellezza lasciandola nelle mani indegne di un orrore destinato ad avere la meglio su tutto e tutti.

Basterebbe un pizzico di attenzione in più, unito a qualche dose di umanità, per non lasciare che l’indifferenza sovrasti ogni cosa: dare dignità ai clochard, offrendo loro cibo e riparo (sarebbero sufficienti coperte e una tenda per chi non accetta di recarsi presso i dormitori, oltre a servizi igienici) e proteggere al contempo la grazia del nostro patrimonio collettivo. In sintesi proteggere la nostra Città, la Città di tutti e aperta a tutti nel rispetto della sua magnificenza.

Mentre sono intento a scrivere queste righe, Rai Storia sta trasmettendo un documentario sulle lotte operaie torinesi degli anni ’60. Anche quella era “Bellezza”: una bellezza che sembra distante secoli, ma ancora capace di allontanare l’aridità che sta spegnendo tutti noi e la nostra Torino.  

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