POLITICA & GIUSTIZIA

Chiuse le indagini, Rosso a processo

L'atto, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, è stato notificato ai difensori. Per la procura l'ex assessore regionale deve rimanere in carcere perché "ricattabile" e "ha mentito". La difesa: "Ha chiarito tutto". Domani la decisione del Tribunale del Riesame

A poco meno di tre settimane dal suo ingresso in carcere Roberto Rosso scivola verso il processo: la procura di Torino, con un provvedimento spiccato a tempo di record, ha chiuso formalmente l’inchiesta sulla ’ndrangheta che vede l’ormai ex assessore ed ex consigliere regionale del Piemonte indagato per voto di scambio-politico mafioso. L’ipotesi d’accusa è quella già contestata il 20 dicembre al momento dell’arresto, con qualche modifica dettata dagli accertamenti successivi: Rosso, tramite due intermediari, avrebbe fatto avere a due presunti pezzi da novanta della criminalità organizzata, Onofrio Garcea e Francesco Viterbo, “almeno 5.000 euro” in cambio di pacchetti di voti in occasione delle elezioni della primavera scorsa, dove si era candidato per Fratelli d’Italia.

Quello dei magistrati è stato un colpo di acceleratore, impresso tra la sorpresa generale nelle stesse ore in cui davanti al tribunale del riesame l'avvocato di Rosso, Giorgio Piazzese, spiegava ai giudici che non c’erano esigenze cautelari perché Rosso si è dimesso da tutte le cariche, ha chiarito la sua posizione con gli inquirenti e nelle carte non c’è traccia di comportamenti finalizzati a favorire i boss. Il pm Paolo Toso, in aula, ha detto no alla scarcerazione: “Quando lo abbiamo interrogato Rosso ha mentito. Evidentemente è ricattabile”. L’ex assessore si era difeso giurando di non sapere che Garcea e Viterbo erano legati alla ’ndrangheta e che il denaro era un contributo per l’attivazione della campagna elettorale sul territorio. “Ma di quella somma mancano i rendiconti” ha obiettato il pm dopo avere prodotto il verbale dell’imprenditrice Enza Colavito, uno degli intermediari: “A Rosso - dichiara la donna - non dissi che quei due erano dei mafiosi, ma che erano degli spacciatori”.

L’avviso di chiusura indagini riguarda undici persone, accusate a vario titolo di episodi diversi, e racconta la storia della costruzione nella zona di Carmagnola (Torino) di una cellula di ’ndranghetisti - riconducibile alle famiglie Arona, Defina e Serratore - legata alla cosca Bonavota di Vibo Valentia. È probabile che la velocità della procura sia dovuta alla necessità di unire il fascicolo a quello di un’altra inchiesta (chiamata Carminius, con 41 indagati) sul radicamento del clan nella cittadina piemontese. Tra gli undici destinatari del nuovo provvedimento spicca l’imprenditore Mario Burlò, anche lui arrestato il 20 dicembre, che secondo gli inquirenti era diventato una specie di gallina dalle uova d’oro per la cosca: grazie a lui i boss potevano acquisire il controllo o la gestione di attività economiche. Un esempio è la costruzione di 240 nuovi appartamenti in un villaggio-vacanze a Olbia: “Ci faremo lavorare le nostre imprese”, si sente dire in una intercettazione. “È una millanteria” ha replicato la difesa: “Quell’affare non è mai andato in porto, così come nessuna delle proposte che ci sono state fatte. C’erano tante altre persone alle riunioni, basterebbe interrogarle. Ma questa indagine è stata fatta in fretta”.

Intanto è stato discusso stamani davanti al tribunale di Torino il ricorso di Rosso contro l’ordinanza di custodia cautelare. La procura, in apertura di udienza, ha depositato i verbali degli interrogatori di tre persone, tra cui quello dell’imprenditrice Enza Colavito, anche lei arrestata, effettuati nei giorni scorsi. L’ipotesi degli inquirenti e che abbia fatto avere del denaro, tramite intermediari, a due presunti boss in cambio di voti in occasione delle ultime elezioni regionali. L'ex assessore regionale ha respinto l’accusa affermando che in realtà si trattava di un contributo per l’organizzazione sul territorio della campagna elettorale. La difesa ha sottolineato che l’assessore si è dimesso e che, di conseguenza, non ci sono più esigenze cautelari che ne giustifichino la permanenza in carcere. La procura si è detta di parere diverso.

Il Tribunale del Riesame dovrebbe decidere domani. Per l’accusa Rosso deve rimanere in carcere perché è “ricattabile” e perché “ha mentito”. In particolare il pm Paolo Toso gli contesta di aver accettato di pagare 15mila euro (poi diventati 7.900) per la promessa di uno stock di voti ottenuta dai referenti della cosca Bonavota. Una cifra che Rosso, durante l’interrogatorio, ha derubricato a mero rimborso, ma che non figura tra i suoi rendiconti elettorali. Per questo la Procura di Torino è convinta che Rosso non abbia detto la verità e che sia in qualche modo “ricattabile”. È uno dei motivi per cui la procura oggi ha chiesto al Riesame di respingere la richiesta di scarcerazione presentata dall’avvocato di Rosso Giorgio Piazzese con, in subordine, un’attenuazione delle misure che potrebbe configurarsi con i domiciliari.

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