Ritornano i partiti? Speriamo

Da tempo, da troppo tempo ormai, lamentiamo l’assenza dei partiti. O meglio, dei partiti in quanto tali. Perché la mole di partiti personali, di cartelli elettorali, di sigle che nascono e scompaiono con una rapidità impressionante ne conosciamo tanti. Soprattutto in una fase politica fluida dominata da una spietata personalizzazione e dalla marcata spettacolarizzazione. E dove l’assenza di una cultura politica, di un pensiero e di una classe dirigente autorevole e qualificata hanno il sopravvento da molti anni.

Adesso, e questa forse è la novità di questa stagione – anche se il futuro è tutto da scrivere e da progettare – può ritornare la stagione dei partiti. Certo, i partiti del passato sono consegnati alla storia e alla letteratura. Si possono rimpiangere o meno, a seconda dei punti di vista, ma non avranno più cittadinanza attiva nella cornice politica italiana. Eppure qualcosa si muove. E anche grazie alla recente mobilitazione delle “piazze”, che sono importanti non per rimarcare la moda del momento ma, al contrario, per lo stimolo e la spinta che trasmettono ai soggetti politici già in campo o a quelli che potrebbero nascere a breve. Perché quando la richiesta della novità e del cambiamento non si sposano più con lo spontaneismo, con la casualità, con l’improvvisazione e con l’incompetenza, forse è il momento opportuno per ridare spessore, qualità, autorevolezza e peso sociale e culturale ai partiti.

Insomma, ci si rende conto che la sola rottamazione, che il solo Vaffaday, che la non preparazione esibita come un trofeo e via discorrendo, sono elementi che peggiorano e non migliorano affatto la politica e la sua gestione quotidiana. Come abbiamo potuto amaramente constatare. Perché ormai dovrebbe essere chiaro che non si può ogni 2/3 anni sostenere che siamo sempre e solo all’anno zero e che dobbiamo sempre ripartire daccapo. Se si fa tabula fa del passato l’epilogo non può che essere quello che viviamo tutt’oggi. E cioè, appunto, partiti personali, cartelli elettorali che vivono in virtù delle fortune esistenziali del capo o del guru di turno, assenza radicale di storia, di pensiero e di cultura politica perché tutto viene demandato e appaltato al capo; classi dirigenti improvvisate che vantano la loro inesperienza e la radicale cesura con il passato.

Adesso, almeno pare, le cose potrebbero cambiare. Ma le tre condizioni fondamentali, piaccia o non piaccia è così, che possono accompagnare un potenziale ritorno dei partiti, sono sempre quelle. E cioè, una cultura politica di riferimento per non vivere alla giornata, una classe dirigente autorevole e rappresentativa che non sia solo ispirata alla bieca fedeltà al capo da un lato o alla radicale inesperienza dall’altro come bandiera da sventolare e non si sa contro chi e, in ultimo, una organizzazione democratica interna. Anche perché, come amava già dire Carlo Donat-Cattin ai corsi di formazione dei giovani della sinistra Dc negli anni '80, “non è possibile che un partito voglia istituzioni democratiche e partecipative quando al suo interno quel partito non pratica il principio democratico”. Una espressione di molti anni fa ma quasi profetica per la sua perdurante attualità e modernità.

Ecco perché, forse, siamo alla vigilia di una nuova stagione politica. E occorre lavorare affinché ritornino i partiti, che sono e restano pur sempre l’espressione più democratica della politica contemporanea. Come recita, del resto, la nostra Costituzione.

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