Ciao Turin, vad luntan a travaié

Alcuni eventi hanno la capacità di prenderci per mano, sovente contro la nostra volontà, e accompagnarci nel mondo dei ricordi, dove di solito amiamo “naufragar”.

La scomparsa di una persona, o passeggiare nelle vicinanze di luoghi protagonisti di eventi che hanno lasciato il segno, oppure fare due parole al bar su argomenti particolarmente cari sono momenti in grado di smuovere veri e propri macigni mentali.

L’anniversario della scomparsa del fuggitivo, non certo esule, Bettino Craxi diventa fonte di ricordi, di sguardi verso quella Prima Repubblica che non è mai morta, grazie alla sua abilità nel mascherarsi spacciandosi per un “nuovo” mai esistito davvero.

Lo scandalo “Mani pulite” esplose fragorosamente in un Parlamento molto diverso dall’attuale. I partiti dominavano indisturbati la società tramite una classe politica generalmente colta, seppur arraffona. Le aule di Camera e Senato erano frequentate, esattamente come oggi, anche da un buon numero di “maneggioni” e individui in cerca di clientele da cui attingere consenso, ma le redini dei gruppi parlamentari erano nelle mani di chi aveva vissuto guerre e soprattutto un regime dittatoriale. Non corrispondeva al vero (e neppure corrisponde oggi) il detto popolare “Sono tutti uguali”.

Infine la maggioranza di governo, a volte compromessa con gli ambienti eversivi dello Stato, era posta sotto il vigile controllo del Pci di Berlinguer e dei suoi militanti, preparati e moralmente inattaccabili. In quegli anni la televisione era monopolio di Stefano Intini, Giuliano Ferrara, De Michelis e Zanone, nonché dei democristiani De Mita, Fanfani e Andreotti (quest’ultimo solo sul finire della sua carriera): volti della cui visione eravamo tutti saturi.

A molti lettori queste righe possono sembrare un inutile trattato storico incentrato sul secolo scorso, ma il vero tuffo nel passato si concretizza transitando intorno allo stabilimento Fiat (ora Fca con sede all’estero) di Mirafiori. Oggi la fabbrica automobilistica torinese è considerata nulla più che un buco nero collocato nel bel mezzo della periferia metropolitana: una frattura urbanistica dalle notevoli dimensioni, pronta a trasformarsi in una ghiotta occasione speculativa per imprenditori edili.

La Fiat nel secolo scorso era una città nella città. Tra quelle mura lavoravano decine di migliaia di persone, tra operai e impiegati, e il cambio turno diventava l’orologio che regolava i tempi di Torino (e non solo). Un’enorme fiumana di lavoratori, all’alba e alla sera, si spostava da ogni quartiere del capoluogo subalpino per raggiungere la postazione in reparto, condizionando l’intera mobilità urbana.

I grandi corsi Agnelli, Tazzoli, Unione Sovietica diventavano, a orari regolari, le arterie in cui scorreva la linfa vitale della fabbrica. Il giardino pubblico di piazza Livio Bianco era addirittura diviso da alcuni sentieri creati dal passaggio giornaliero di coloro che andavano a costruire autovetture. Il senso di appartenenza a un comune destino, che univa tutti gli operai del ciclopico stabilimento, lo chiamavano “Orgoglio operaio” e “Solidarietà di classe”.

Lo sciopero portava in strada migliaia di persone. Cortei di massa, pacifici e chiassosi, percorrevano le direttrici che da corso Settembrini e Tazzoli portavano nelle centrali piazza San Carlo o Castello. Torino era davvero operaia, fortemente operaia, e la sua forza risiedeva nel lavoro, nel produrre, così come nella difesa dei diritti di chi materialmente creava il profitto del padrone: una metropoli all’antitesi dell’effimera Milano finanziaria e in doppio petto, ossia la Milano “da bere”.

Il vuoto lasciato da Mirafiori, in attesa della sua trasformazione in lotti edificabili, è il muto testimone di tante crisi aziendali, di ristrutturazioni ideate per aumentare i dividenti societari, e soprattutto di licenziamenti spietati. Embraco, Ventures (Chieri), Morton sono alcune delle aziende i cui dipendenti hanno trascorso Natale e Capodanno davanti ai rispettivi cancelli, nel tentativo estremo di salvare il posto di lavoro.

L’ex capitale italiana è nuovamente in cerca di una sua identità: riders, proprietari di alloggi Airbnb, madamine varie hanno sostituito i “Toni”, le tute da operatori alla catena di montaggio, nel nome di una modernità alleata di chi ama sfruttare il prossimo. In centro città i negozi di lusso condividono le vetrine con i tanti senza fissa dimora che hanno fatto del marciapiede un freddo giaciglio.

Turismo ed effimero (da non confondere con la Cultura) si sono sostituiti nel giro di pochi anni a chiavi inglesi e martelli, ma il vero cambiamento non è ancora visibile all’orizzonte, alle spalle di Superga. Una classe politica trasversale, presente nella maggioranza dei gruppi consiliari, impegna le sue energie quasi esclusivamente nella ricerca del consenso e nella propria sopravvivenza, scordando troppo spesso il territorio e i cittadini di cui è espressione.

Arroganza e vedute di prospettiva limitate dal super-ego di molti eletti tengono in ostaggio la nostra città, oramai a rischio di entropia. Aprire le finestre delle stanze del potere, nel 2016, non ha permesso di cambiare aria e purificare gli ambienti: la capitale sabauda rischia di soffocare giorno dopo giorno.

Rimangono solo i ricordi. Ciao Torino.

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