La cucina della signora Rosa

“La signora Rosa questa sera cucinerà 48 pasti caldi. Abita vicino a piazza d’Armi e ha deciso di provvedere ai senza tetto accampati lì. Domani invece andiamo noi, solidali, a portar loro mascherine e gel per le mani”. Terminata la lettura del messaggio, inviatomi su una delle tante chat attive, si è scatenata in me una miscellanea di emozioni contrastanti. Alla piena soddisfazione per una ritrovata solidarietà collettiva, a quanto pare ancora presente nella nostra Torino, si è sovrapposta purtroppo la profonda preoccupazione per la diserzione delle istituzioni cittadine dai loro doveri.

Il ruolo degli enti pubblici è entrato in una zona d’ombra dove i suoi confini non sono più distinguibili. Nelle società moderne il welfare e la questione sociale sono stati generalmente considerati strumenti utili a fornire opportunità, nonché assistenza, alle fasce maggiormente svantaggiate della popolazione. Amministrare una comunità salvaguardando tutti i suoi appartenenti significa combattere la miseria, ridurre le tensioni sociali grazie a un’ottica di giustizia egualitaria.

Il Covid-19 pare abbia messo tutti noi dinanzi alle drammatiche conseguenze di passati stravolgimenti politici la cui azione è continuata nel tempo. Sconvolgimenti che non si sono limitati ad archiviare (parzialmente) la cosiddetta Prima Repubblica, ma che hanno avuto ricadute devastanti pure nei riguardi della cultura amministrativa e della tutela dei diritti delle classi meno abbienti. Nel nome del risparmio, infatti, abbiamo attraversato decenni in cui la parola d’ordine è stata “Tagliare”, e la controparola “Privatizzare”.

Un lungo periodo in cui ha dominato la riduzione dei servizi alla persona (Sanità inclusa), e di pari passo si è fatto ricorso alla delega in bianco al privato sociale sul tema dell’assistenza. Tutti i favori sono stati invece rivolti al mito della libera impresa commerciale, alla quale non sono mai stati negati aiuti (senza alcun controllo e con fughe all’estero della produzione) pur ottenendo quasi sempre nulla in cambio.

Nel capoluogo subalpino si possono riscontrare i danni provocati da una concezione molto limitata del “Gestire il Pubblico”, una visione secondo la quale l’ente comunale versa contributi lasciando ai beneficiari decisioni e tentativi di risoluzione dei più gravi problemi che affliggono la città.

Il riscontro di quanto sin qui affermato è di facile dimostrazione. Nei primissimi giorni della “Fase 2”, a emergenza quindi non archiviata, il Comune di Torino chiude il dormitorio di piazza d’Armi, zona Santa Rita, poiché allestito soltanto al fine di combattere l’emergenza invernale: riparo di fortuna dedicato ai senza tetto. Una scelta priva di qualsiasi valutazione in merito alla ricollocazione degli ospiti, i quali, una volta privati del loro postocontainer, si sono ritrovati abbandonati a se stessi nonché agli attacchi indiscriminati del Coronavirus.

I risultati di questo inconcepibile errore si possono osservare tra i bivacchi di fortuna allestiti nei giorni a seguire in piazza d’Armi, sotto i portici di Palazzo Carignano, in Galleria San Federico e in tanti altri luoghi riparati del centro storico cittadino (oltre al presidio organizzato davanti al palazzo comunale,e sgomberato nella mattinata di martedì scorso).

Le condizioni in cui versano le comunità dei senza tetto, che pare siano almeno 300 persone, sono decisamente precarie. In assenza di servizi igienici ogni luogo anche solo parzialmente riparato diventa latrina, con le immaginabili conseguenze: per chi ha fatto di quell’area la sua abitazione e per chi vi transita (o risiede). Inoltre, per i senza fissa dimora colpiti da Covid non è possibile la quarantena (e forse neppure le doverose cure), fatto che di certo non aiuta il contenimento della trasmissione virale, e dai contorni piuttosto disumani. La sopravvivenza per queste persone è ogni giorno più difficile.

Un contesto drammatico dove tutto viene affidato all’opera spontanea dei cittadini solidali e delle associazioni di volontariato. Di fronte alla diaspora disperata dei clochard, le Istituzioni cittadine mostrano invece un preoccupante disorientamento, passando prima dall’inattività assoluta, come ha evidenziato il loro lungo silenzio, per poi ridestarsi dal torpore tramite misure risolutive dal vago sapore autoritario (modello regimi sudamericani). Un esempio dell’agire confuso è senz’altro la chiusura delle fontane pubbliche collocate nelle adiacenze dei giacigli di chi vive in strada, con lo scopo di impedire loro l’uso dell’acqua e costringerlia trovare altri ripari meno “imbarazzanti” (provvedimento folle,in un’epoca in cui lavarsi è essenziale per contrastare il virus).

Emerge la visione che gli amministratori hanno sul tema del welfare ogniqualvolta si scatena il confronto nelle commissioni di lavoro, comunale e circoscrizionali: per coordinatori e assessori l’assistenza non è una competenza primariadell’ente pubblico, bensì un compito come tanti da affidare esclusivamente al volontariato e al privato sociale. Il Comune o le Circoscrizioni non devono fare altro, secondo questa curiosa visione, che sostenere il compito di chi decide come, quando intervenire e chi aiutare.

È tornata in auge una visione miope del ruolo Pubblico, che si sperava morta e defunta con la fine delle monarchie oscurantiste. Il riaffacciarsi del sistema assistenziale ottocentesco, oggi fatto proprio dalle attuali assemblee elettive cittadine, non è il frutto di una scelta ponderata, bensì di una profonda non conoscenza della Politica e della nostra Storia.

L’arroganza, tipico atteggiamento di chi crede di avere la Verità in tasca,detta legge nei quartieri e nelle metropoli. Una prosopopea che cela maldestramente la non conoscenza delle lotte sociali protagoniste nella Torino degli scorsi decenni, così come un’importante sottovalutazione delle proprie competenze e delle conseguenti possibilità di mutare l’ingiustizia esistente.

Gravi lacune, mescolate all’assenza di umiltà, rispecchiano fedelmente un Paese che non vuole aver a che fare con la Cultura, riuscendo a dedicarsi con passione solamente alla coltivazione di rabbia e odio diffuso: le radici di un pesante oscurantismo tornato con prepotenza ad affacciarsi (sottobraccio al fascismo) sulle nostre desolate comunità.

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