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Torino, i giovani e la cultura: nessun pianto Greco

Basta vittimismo e piagnistei. Abbiamo un patrimonio da sfruttare, ma occorre pensare e agire in grande. Innovazione, ricerca e formazione: ridisegnando il rapporto pubblico-privato. Parla il direttore del Museo Egizio, una delle menti più brillanti in circolazione

“Nel 168 avanti Cristo Roma conquista la Grecia, finisce il governo delle Poleis, ma la Grecia si inventa quello che oggi chiameremmo il businnes della paideia, dell’educazione. Se volevi fare un cursus honorum a Roma o studiavi ad Atene oppure dovevi avere un pedagogo greco”.

Ricorre, affondando nella storia, a quell’immagine di profondo e drammatico cambiamento Christian Greco per riportare alla luce, lui egittologo di fama internazionale e da sei anni alla direzione del Museo Egizio, un concetto che in Italia dovrebbe essere un faro e, invece, resta nelle tenebre. “Il Covid ce lo ha insegnato, siamo entrati in pieno nella rivoluzione digitale, ma non pensiamo di cavarcela creando surrogati di visite nei musei, pensiamo, puttosto, come il nostro Paese potrebbe diventare il primo al mondo nell’utilizzo nel migliore dei modi di un patrimonio culturale senza eguali. Primo nella formazione culturale”.

E Torino, “della quale ormai mi sento cittadino acquisito e che ricordo quel primo di aprile del 2015 con 15mila persone in attesa di poter visitare il nuovo Egizio”, ecco questa città per il quarantacinquenne egittologo che ha bruciato tappe su tappe, voluto da Evelina Christillin senza indugi e con una scelta che si rivelerà più che felice, “potrebbe diventare un laboratorio per l’innovazione della formazione culturale, per l’archeologia. E fare lezione al mondo”.

Orgoglioso di “poter tornare a fare un servizio pubblico essenziale”, ovvero riaprire con orari normali e prezzi ridotti l’Egizio, parlando con lo Spiffero, Greco è il bianco vincente nella scacchiera su quel nero che non molti anni fa, per bocca di un allora ministro, fece una delle mosse più infelici asserendo che con la cultura non si mangia. Ci sarebbe da banchettare senza fine, altro che, “se solo si incominciasse a considerare la cultura qualcosa d’altro e di più di un prestigioso attrattore turistico”.

Si chiede, il quarantacinquenne direttore, “perché il nostro Paese, che ha molto orgoglio per il patrimonio culturale continui riservare a questo le briciole degli investimenti, che non devono essere tutti pubblici. Perché non facciamo dei grandi patti pubblico-privati pensando che l’innovazione dell’Italia possa passare da una nuova industria culturale?”. E sta proprio qui, nella concezione di patrimonio culturale (materiale e immateriale) e nell’ incapacità di vederne assai più larghi utilizzi, uno dei problemi del Paese. “Ho vissuto tanti anni in Olanda e lì il problema era che i ragazzi più bravi che finivano il dottorato in greco o in latino poi non andavano a insegnare, perché venivano rubati dalle grandi aziende per farli emergere”. Impensabile, salvo casi rari come le mosche bianche, ancor oggi in Italia, dove il massimo dell’attenzione alla cultura si ferma (ed è già molto) a poi non così ingenti e diffuse sponsorizzazioni.

Comprendere che con la cultura non solo si mangia, ma si riempie la dispensa, è ancora una scommessa da giocare. Greco mette sul tavolo fiches pesanti: “Perché, anche con l’aiuto delle due fondazioni bancarie, non creare un sistema unico a Torino in cui la cultura non si fermi più ad essere solo attrattore turistico, ma diventi davvero un nuovo laboratorio di innovazione del Paese?”. Dice questo in virtù di un’analisi della città in cui è arrivato sei anni fa e dalla quale guarda il mondo, a sua volta con gli occhi puntati sul più importante museo egizio che possa vantare.

“L’Egizio viene considerato dai torinesi il loro museo e questo è molto bello, c’è un profondo senso identitario della città, che, però, forse non sfrutta fino in fondo tutte le sue potenzialità. A Torino c’è preistoria, e la storia tutta dal IV millennio avanti Cristo che troviamo da noi, il tessuto romano della città, il medioevo, il barocco, i Savoia… Ha tutti gli ingredienti, ma che a differenza di grandi città europee, pensiamo a Londra, non ha ancora confezionato la torta. Ci sono due atenei importantissimi, l’Università e il Politecnico, vari centri di innovazione e ricerca, ma la cultura viene ancora troppo poco inserita in tutto questo, credo sia il momento di cambiare”.

Andato ventunenne in Olanda con Erasmus pensando di starci sette mesi e rimastoci diciassette anni, quando Christillin lo chiama a Torino in Italia è un “giovanissimo” direttore, in Olanda a 34 anni era già “vecchio” curatore del museo archeologico di Leiden. All’Egizio, che apre a centro di ricerca, firma oltre ottanta memorandum di intesa con Università italiane e straniere, i numeri dei visitatori crescono in questi anni a testimonianza che il ticket Christillin-Greco funziona eccome. Poi arriva il Coronavirus, si deve chiudere. E quando, dal 2 giugno, data simbolo, si riparte prima parzialmente e da ieri per farlo in maniera completa, quelle idee su come sfruttare al meglio il patrimonio culturale del Paese e il ruolo prìncipe che Torino può giocare suonano, ancor più forte, come proposta e come opportunità.

“Non un deposito di cultura, ma un vero motore di ricerca. Serve un mondo delle imprese che creda sia questo il nostro patrimonio culturale, lo veda come biglietto da visita del Paese e una cosa che nessuno potrà mai mettere in discussione”. Purtroppo i dati Ocse ci dicono che il 26% degli italiani visita un museo una volta all’anno, a fronte del 90% dei Paesi scandinavi. “E questo è un problema, significa che i giovani conoscono poco o nulla questa enorme ricchezza e vien da chiedersi come faranno in futuro ad agire per una sua tutela”.

L’egittologo vicentino di Arzignano, che rispose con stile e garbo rari alle sguaiate proteste di una non indimenticabile Giorgia Meloni, rifiuta la narrazione vittimistica dei cervelli in fuga. Ricorda la nascita delle università con i clerici vagantes e ripete che fosse per lui metterebbe in Costituzione l’obbligo di un periodo all’estero per tutti. “Perché il problema non è che tanti giovani vadano a studiare al di fuori dell’Italia, lo è il fatto che noi non attiriamo stranieri. Perché il nostro Paese non viene visto come un punto in cui andare a formarsi e a crescere in un percorso culturale”.

Quando studiava in Olanda, facendo il portiere di notte in un hotel Ibis, “il mio professore mi disse più volte: sei venuto a studiare una delle cose più belle al mondo, ma non troverai lavoro. Da una parte era uno stimolo a studiare dall’altra era un avviso: acquisisci quante più competenze che potrai applicare anche in altri ambiti. Noi invece pensiamo sempre che il ruolo sia fondamentale. Se il cda mi manda via dall’Egizio resto comunque un egittologo”. Con le idee chiare su come mangiare, e bene, con la cultura. Preparando le ricette a Torino.

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