IDEE

"La politica deve tornare a studiare, l'Università fucina di nuovi leader"

La ripresa delle lezioni e il Covid, la crisi economica e d'identità di Torino, la funzione dell'accademia, il nuovo ruolo dell'intellettuale, la sfida del Parco della Salute. Perché occorre rimettere al centro la formazione. Intervista a Geuna, rettore dell'Ateneo subalpino

Sempre più leaderistica e prodiga di messaggi tanto rapidi quanto necessariamente superficiali, la politica mai come oggi mostra, pur non ammettendolo, di avere bisogno di studio, ragionamento, riflessione e idee che durino ben più a lungo e mostrino ben diversa solidità di un tweet. Ha necessità di recuperare quel rapporto, senza reciproche sudditanze, con l’accademia, il mondo della ricerca, l’Università. La stessa che in passato ha nutrito, allevato e cresciuto, in una simbiosi non sempre facile ma raramente improduttiva, una politica che, senza nostagie, trova sempre più spesso oggi ragioni di rimpianto, almeno per quanto riguarda la preparazione e la riflessione sui temi.

Ma non tragga in inganno il titolo che il rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna avrebbe dato al discorso di inaugurazione dell’Anno Accademico, cerimonia impedita dal lockdown. “La riscoperta del ruolo dell’intellettuale” è una necessità, si spera compresa e colta appieno dalla classe dirigente, che se affonda le ragioni storiche in ciò che hanno dato figure carismatiche –  amate od odiate, seguite o avversate – oggi deve, tuttavia, essere declinata in maniera diversa, orientata verso un’eccellenza il più possibile vasta e corale.

Ordinario di Anatomia umana, oltre 230 pubblicazioni, due brevetti licenziati, 55 anni tra pochi giorni, eletto alla guida dell’Ateneo subalpino il primo ottobre dello scorso anno, Geuna il giorno del suo insediamento ricorse al paragone con l’atleta che riceve la staffetta, precisando poi una certa inappropriatezza di quell’immagine, “perché l’atleta corre da solo, mentre il rettore copre la sua frazione con l’aiuto di tutta la comunità universitaria”.

Esortare a ricercare un nuovo ruolo dell’intellettuale di fronte a un pensiero politico debole e alla forza dei messaggi in centoquaranta caratteri potrebbe apparire un messaggio ex cathedra, ma attesta  la necessità e dunque, una mancanza, che si palesa ormai da anni. Anacronistico immaginare il doversi riaffidare a figure nel Pantheon dell’Ateno torinese, ma nel contempo pare indispensabile riallacciare quel legame in parte perduto tra mondo della ricerca e classe dirigente.
“Credo che con quel titolo che avrei dato al mio discorso avrei rischiato di attirarmi delle critiche. Molti avrebbero immaginato, nel mio richiamo, la figura un po’ supponente dell’intellettuale. Chiaramente oggi quella figura non c’è più ed è in qualche modo giusto che non ci sia più. Però si è trattato di persone che hanno dato il loro contributo e venivano ascoltate dalla politica e dalla società. Ritengo però che debba tornare, sia pur adeguata ai tempi. E io credo molto non tanto nel singolo, ma nella nuova leva dei giovani. Il livello dei docenti e dei ricercatori, così come quello dei nostri studenti, si è elevato di molto. Come si dice, è una grande risorsa. Noi ci siamo”.

Non crede che manchi l’interesse della politica o forse c’è troppa paura di un confronto delle idee, così come manchi quello che si definiva l’intellettuale organico?
“Credo si debba tornare alla militanza intellettuale. Come ho detto, non mi aspetterei più un Norberto Bobbio, ma l’accademia può e deve svolgere, pur in maniera diversa e adeguata ai tempi, quel ruolo. Quanto alla politica, è evidente come il linguaggio prevalente sia orientato a provocare reazioni, come si dice, di pancia. La principale colpa della politica di oggi è l’immediatezza della risposta, data spesso senza approfondire, studiare, informarsi. La velocità dei social impongono risposta istantanee, ma se i politici impareranno ad avere un po’ di paura del tweet contro tweet se ne avvantaggeranno tutti. Occorre umiltà, prima di affrontare un tema e dare delle risposte bisogna studiarlo”.

Dunque un ruolo né sovrastante, né sussidiario quello dell’Università rispetto a chi, eletto, deve decidere, ma di supporto anche critico?
“L’accademia non può imporre nulla ed è giusto così. Però spero che le nuove generazioni dei politici tornino a guardare con attenzione al mondo accademico, alla ricerca”.

In questo momento dei rettori delle due Università del Piemonte e, ovviamente, del Politecnico, non c’è un umanista. Il suo Ateneo ha da sempre come colonne portanti la Scuola di Medicina e quella Giuridica che, alternandosi, hanno espresso il vertice. Cambierà qualcosa in questa tradizione o ne vede una prosecuzione?
“Mi pare stia cambiando. Oggi c’è sempre più interdisciplinarità. Alzare l’eccellenza non del singolo ma della base è un ruolo che stiamo assolvendo in maniera trasversale. Il reclutamento universitario non è più legato al mito, con purtroppo a volte fondamenta di verità, dei concorsi pilotati. Oggi i risultati si vedono. Abbiamo dipartimenti di eccellenza in varie discipline, siamo bilanciati”.

Il suo è un osservatorio privilegiato e con visione più lontana di altre sui problemi della città e le possibili soluzioni. La pandemia è arrivata quando Torino già da tempo viveva una crisi profonda, senza aver delineato con certezza e decisione le vie per lasciarsela alle spalle.
“Sì, l’Università è un osservatorio particolare, noi riusciamo a vedere le future generazioni e devo dire che sul quel versante si era ancor prima del Covid in controtendenza rispetto alla crisi. Abbiamo in città due atenei attrattivi, noi siamo saliti da 72mila a 80mila studenti negli ultimi cinque anni ed è cresciuta la qualità degli studenti e del reclutamento dei docenti. Superato un turn over per anni bloccato al 25%, abbiamo recuperato oltre 500 ricercatori. Nell’Università ci sono enormi risorse, che per dare i frutti necessitano, però, di un certo tempo. Già prima, e a maggior ragione ora possono dare il loro contributo in controtendenza rispetto a quella decrescita infelice che per me altro non è che un suicidio programmato”.

Cosa e quanto cambierà il Covid nello sviluppo della città e del più ampio territorio piemontese?
“Il Covid ha dato uno scossone terribile e il post-Covid come i dopoguerra può essere un momento potenzialmente di grande rinascita. E, dunque, questo può essere il momento giusto, ma bisogna puntare molto, davvero molto, sui giovani e sulla formazione”.

Si torna giocoforza alla politica, alle scelte da compiere studiando senza indulgere alle reazioni di pancia e al consenso immediato, non trova?
“Le dico questo: la nostra Università sta elaborando uno studio per la valutazione scientifica pre e post dell’impatto delle leggi. Quando la politica deve fare una legge deve conoscerne gli effetti prima e valutarli anche successivamente. Insomma, alla politica spetta scegliere e decidere, meglio se lo fa su base scientifica”.

Una scelta che lei ha sposato con entusiasmo e impegno è quella del Parco della Salute. I problemi non mancano pure lì, resta ottimista?
“Assolutamente sì. È la sfida e la priorità, ovviamente non certo la sola, del mio rettorato. La sfida non è solo l’ospedale, ma tutto ciò che ci sarà introno. Per questo nel gruppo di lavoro ho voluto coinvolgere tutti i dipartimenti. C’è da costruire scienza in tutti i campi. Il Parco sarà strategico per i futuro economico e sociale della città. Il calo industriale deve essere affrontato su tutti i settori, ma il biomedicale è quello del futuro, tutte le proiezioni dicono che la gente spenderà sempre di più per curarsi e per stare meglio. E poi c’è la questione della filiera corta. Nei mesi scorsi, purtroppo, abbiamo compreso cosa può significare dipendere da Paesi lontani per avere le mascherine, rischiare di non trovare respiratori. Avere la ricerca e l’industria a casa in questo campo è una necessità strategica”.

Professore, lei per il Covid ha dovuto sospendere le cerimonie di laurea e la stessa ripresa dell’attività in presenza è ancora ridotta. Muterà qualcosa nei prossimi mesi?
“Abbiamo fatto la scelta di permettere la ripresa dell’attività in presenza, ma lasciare la decisione ai singoli corsi. Avremo un 50% di presenze e so che questo vuol dire ridurre la massa di studenti sul tessuto economico cittadino. Ma credo, e mi auguro, che già a partire dal secondo semestre potremmo spingeremo un po’ sull’acceleratore”.

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