OBITUARY

Addio a La Ganga, socialista impenitente

Si è spento a 72 anni lo storico esponente del Psi craxiano. Dirigente nazionale e parlamentare di lungo corso; dopo la fine della Prima Repubblica aveva aderito al Pd con cui era tornato in Sala Rossa

È scomparso questa notte, nel sonno, Giusi La Ganga. Classe 1948, deputato per quattro legislature con il Psi, dal 1979 al 1994. Nella sua seconda vita politica, dopo il coinvolgimento in Tangentopoli (da cui uscì con il patteggiamento e un risarcimento di 500 milioni), aderì alla Margherita, prima, e poi al Partito democratico con il quale è stato eletto tra i banchi della Sala Rossa, nel Consiglio comunale di Torino, durante la consiliatura di Piero Fassino. A Natale dello scorso anno era stato colpito da un ictus e le condizioni di salute si erano poi compromesse con l'infezione del Covid che lo avevano costretto a interrompere le terapie riabilitative presso il Don Gnocchi.

“Avrei voluto nascere in India perché il mio nome almeno lì mi avrebbe dato dei vantaggi – raccontò – Mi chiamo come il fiume sacro che chiamano Ganga e non Gange”. Invece è nato in Italia da padre siciliano immigrato, funzionario di stato, e da mamma torinese. Come molti della sua generazione ha cominciato a fare politica da giovane studente universitario nell’Unione Goliardica Italiana, aderendo quasi immediatamente ai Socialisti e alla loro componente riformista e autonomista.

Una carriera fulminante iniziata a Rivoli nel 1970; a 28 anni viene eletto segretario della Federazione del Psi di Torino, sotto l’ala di Sergio Borgogno, mitica figura del Psi torinese, partigiano nelle Brigate Matteotti, e che sarà anche vicesindaco di Torino. Nel 1979 approda a Montecitorio dove resterà per quattro legislature fino al 1994, conquistando la fiducia di Bettino Craxi, di cui fu fino alla fine il luogotenente nel capoluogo piemontese e che lo volle come responsabile degli Enti Locali del partito e, verso la fine della Prima Repubblica, capogruppo alla Camera.  

Una sorta di testamento è il libro uscito in questi giorni, edito da Rubbettino: “I Socialisti e l’Italia”, lunga intervista con Salvatore Vullo in cui ripercorre le fasi salienti della storia del dopoguerra, a livello nazionale e locale, intrecciata alla sua carriera politica. “A quel tempo, per tutto il periodo della prima Repubblica, la politica era tutto, era considerata la forma più alta dell’impegno, non a caso le migliori intelligenze dell’università, della cultura erano tutte politicamente impegnate – ha scritto –. Si pensava che la politica potesse cambiare il mondo e i partiti erano le forme migliori e democratiche per organizzare la partecipazione, un sistema dove il popolo, le classi umili, i lavoratori potessero partecipare, cimentarsi e concorrere negli incarichi politici e amministrativi, fino ai livelli più alti. Per me, e tanti altri, è stato un percorso lungo, selettivo e altamente formativo; c’era una sorta di selezione naturale, perché se non reggevi, se non dimostravi di essere all’altezza non facevi carriera; certo, come sempre, c’erano le eccezioni, ma la regola era quella, e comunque, anche per gli incapaci, gli imbelli che riuscivano per vari motivi a far carriera, prima o poi la resa dei conti arrivava. Dunque, in quei tempi la politica era totalizzante, specie negli anni ’60 e ’70, quando si teorizzava che tutto fosse politica, e si affermava: «Il personale è politico!»; la politica sovrastava i rapporti famigliari e personali. Una politica totalizzante che poteva arrivare anche alle forme cruente e nichiliste, come accadde a molti militanti e dirigenti politici che scelsero il terrorismo come forma di lotta, fino al punto di teorizzare che la lotta armata fosse un fine e non un mezzo. Ma a parte questi estremi, i grandi partiti popolari e di massa, per la loro composizione e per la loro dimensione nazionale, garantivano la coesione nazionale e riuscivano a dare rappresentatività ed equilibrio ai vari interessi territoriali e alle varie classi sociali e professionali. Oggi, invece, tutto questo non c’è più; la politica è stata sempre più screditata; non a caso, come teorizzava un famoso politologo americano, la crisi della politica e la sua delegittimazione avrebbe portato al trionfo del localismo, del lobbismo e del corporativismo (che lui considerava i nemici della democrazia). Già da un po’ di anni, sempre più si crede che la politica non cambi più il mondo; e oggi, senza più la funzione di selezione e formazione che svolgevano i partiti, anzi senza più i partiti, la politica la può fare chiunque, senza alcuna preparazione e in una forma-funzione diretta tra società civile e politica. Quindi, la selezione è casuale e precaria; e dall’idea della politica pura, siamo passati alla politica del lucrare”.

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