Un muro bianco

I muri urbani a volte raccontano storie, amori, vicende politiche e sociali. “Un muro bianco non fa pensare”, si leggeva tempo addietro sul fronte di un edificio posto in zona universitaria a Torino. Slogan, appelli, accuse, note artistiche che per i proprietari degli immobili pittati significano un indegno imbrattamento della propria residenza, ma che per altri raffigurano uno stimolo a incontenibili reazioni di rabbia o a sentimenti di pura condivisione.

Negli anni passati le parole dipinte su palazzi pubblici, raramente su quelli privati, hanno riprodotto partigianerie calcistiche, nostalgie mussoliniane affidate a croci celtiche e svastiche, nonché una miriade di falci e martello rosse accompagnate da incitamenti alla lotta per la difesa dei diritti fondamentali. Tante, certamente troppe scritte hanno sfigurato monumenti e siti architettonici dalla rara bellezza, ma molte hanno invece narrato in modo preciso lo scontro sociale e culturale che attraversava il nostro Paese negli anni della speranza.

In seguito è arrivato il nuovo millennio con la sua carica innovativa di graffiti metropolitani: disegni a spray dai caratteristici colori e dalle curve armoniche, presto sostituiti dalle indicazioni delle zone di influenza delle gang di quartiere. Camminando per la città è facile constatare come siano trascorsi molti anni dal 1968, e un profondo divario culturale segni ormai una spaccatura insanabile tra il passato intriso di movimentismo, di fare gruppo, e un’attualità dominata dall’espressione prettamente individualista o di piccolo gruppo.

Osservando i muri delle scuole superiori, dell’ateneo, del politecnico crolla la certezza sull’ipotesi che un palazzo privo di scritte non faccia riflettere a tutto campo, poiché l’assenza di una qualsiasi espressione diventa occasione per constatare la direzione intrapresa da una collettività o da un popolo. Torino conferma questa premessa: la scomparsa di simboli politici su case e sedi istituzionali, a esclusione delle sporadiche scritte fatte dalle formazioni neofasciste, insieme all’estinzione di qualsiasi passione nei confronti delle aggregazioni ideologiche (sia istituzionali che spontanee) è la testimonianza di un’epoca che respinge l’utopia. Dato confermato dagli stessi eletti nei consigli territoriali, i quali in gran parte (non tutti) difendono ormai piccoli interessi personali a scapito del bene comune, nonché dei diritti costituzionali. La morte dell’ideologia progressista spegne i sogni di un mondo migliore, accogliendo invece un’azione politica tesa al carrierismo puro.

Allargando lo sguardo oltre i confini pedemontani è possibile osservare il “bianco” a qualsiasi livello istituzionale, appurare come i muri intonsi siano la conseguenza di una società rassegnata a far valere i soli interessi egoistici. I fatti avvenuti al Washington DC, la settimana scorsa, sono riassumibili nel delirante attacco di alcuni militanti repubblicani alla propria rappresentanza parlamentare: un’azione perpetuata nel nome di un Presidente tanto ricco quanto incapace di perdere. Cittadine e cittadini all’assalto del Campidoglio per dare una risposta concreta alla sete di vendetta di Trump; elettori che non sono stati capaci di portare all’attenzione pubblica temi di carattere politico, poiché impegnati in un quadro insurrezionale dagli scarsi contenuti (tranne quelli razzisti e xenofobi).

La stessa crisi in cui ristagna il governo Conte bis ha contorni indefiniti e cause incomprensibili. Le ragioni della probabile caduta dell’attuale premier non si capiscono realmente, anzi sembrano celare calcoli di pura spartizione del potere. Alcuni commentatori politici paragonano l’attuale attacco portato al governo da Matteo Renzi alla fine dell’esecutivo Prodi, ad opera di Bertinotti e del senatore Turigliatto nel 2007. Un raffronto inverosimile.

Sono infatti rilevabili alcune importanti differenze tra le difficoltà in cui navigava l’Ulivo prodiano e l’attuale tempesta abbattutasi sull’alleanza messa alle strette da Italia Viva: all’epoca il Presidente Prodi inciampò sul malcontento della Sinistra (Rifondazione Comunista) a causa di politiche governative in antitesi alle parole d’ordine elettorali (le 35 ore, quindi il Lavoro, e la fine di qualsiasi intervento militare all’estero da parte delle nostre forze armate), oggi un’eventuale dimissione del premier si realizzerebbe a causa di semplici politicismi legati al super-ego di un piccolo leader.

Quanto sta avvenendo a Roma è la fedele fotografia del muro bianco, della parete priva di scritte, ossia di un agire politico raramente mosso da sentimenti di cura della propria comunità. Protagonismo, ricerca disperata di visibilità mediatica e di consenso, sono elementi che inquinano pesantemente il futuro del nostro Paese, e spesso dell’Europa tutta. Un malcostume tenuto in vita dalla corta memoria degli italiani, portati a perdonare i caimani della politica per una cronica pigrizia mentale che affligge gli elettori: una patologia grave che porta a scordare sia ministeri voluti a Monza dalla Lega nel 2011 (durati un anno e dai costi esorbitanti), che i guai giudiziari delle famiglie Boschi e Renzi.

Il muro è bianco perché non c’è più niente da dire e nulla da ricordare.

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