GIUSTIZIA

Crack Seregni, il gip al pm: "Su Ambrosini non ci sono gravi indizi"

Nell’ordinanza emessa dal giudice per le indagini preliminari si escludono sufficienti elementi di colpevolezza a carico del professore torinese e del commercialista Brogi. Resta il nodo di un parere sulla fusione. Preoccupazione nel mondo professionale per gli effetti della vicenda

In Procura a Torino non devono essersi fatti una buona idea, per dirla con un eufemismo, dei professionisti coinvolti nel tentativo di salvataggio delle società dell’ex Gruppo Seregni, un tempo fra i leader nel settore della stampa di quotidiani e periodici. Sono stati infatti iscritti nel registro degli indagati per concorso in bancarotta gli avvocati Stefano Ambrosini e Marco Aiello (quest’ultimo all’epoca dei fatti collaboratore del primo) e il commercialista Filippo Brogi, attestatore dei concordati, e i loro uffici sono stati perquisiti dalla Guardia di Finanza la settimana scorsa.

Ma la richiesta di sospensione dall’attività professionale di Ambrosini e Brogi è stata respinta dal giudice delle indagini preliminari con un’ordinanza di quasi 40 pagine, che potrebbe minare tutto il castello delle ricostruzioni degli inquirenti. Dalle carte dell’inchiesta, ormai in possesso di decine di persone stante il numero degli indagati e dei loro difensori, emerge che il giudice, assai duro verso gli imprenditori Andrea Mastagni, Stefano Mastagni e Diego Pomo (di cui ha disposto la custodia cautelare in carcere) “assolve” invece, almeno per il momento, Ambrosini e Brogi.

I concordati “incriminati”, com’è noto, sono due, Nuova Sebe e Piemonte Printing. Sulla posizione dell’attestatore Brogi il gip osserva che “non sono emersi elementi concreti che consentano di attribuire al professionista una preordinata volontà di riportare dati e valutazioni compiacenti per portare avanti un concordato privo dei requisiti minimi e aggravare così il dissesto della società”, né sembra emergere una vera e propria falsa attestazione.

Per quel che riguarda Ambrosini, il giudice afferma relativamente a Nuova Sebe che “circostanze eccezionali intervenute successivamente all’omologa del concordato non consentono di attribuire agli indagati l’esito infausto del piano”. Quanto a Piemonte Printing, si osserva che egli, come avvocato, abbia fatto affidamento “sulla competenza degli altri professionisti coinvolti, più attrezzati dal punto di vista tecnico a far emergere le riscontrate criticità”. A quanto si apprende dalle carte infatti, non è stato Ambrosini ma un paio di commercialisti (non è chiaro se a loro volta indagati o no) a predisporre i piani di concordato.

L’unico dubbio che il gip avanza riguarda una consulenza che lo studio di Ambrosini avrebbe reso alla holding del Gruppo Seregni: ma in assenza di questo documento – scrive il gip – “e nell’impossibilità di comprendere il contenuto del parere al fine di verificare se lo stesso sia indicativo di una reale conoscenza della realtà sottostante, tale ricostruzione rimane a livello di ipotesi e non consente di ritenere sussistenti i gravi indizi necessari”. Galeotto fu il parere e chi lo scrisse? Presto per dirlo, bisognerà capire se da quel parere emerga davvero che Ambrosini, per quanto irrazionale e inverosimile possa sembrare, abbia addirittura ideato e orchestrato la bancarotta insieme ai suoi clienti. E per questo occorrerà attendere la prossima puntata.

Intanto nell’ambiente professionale, non solo torinese, questa inchiesta ha avuto l’effetto di una vera scossa tellurica. Sono in molti a chiedersi, soprattutto fra chi si occupa a vario titolo di crisi aziendali, quale sia il confine del penalmente lecito e quali i pericoli che da questo punto di vista si corrono. La vicenda rischia insomma di creare un precedente in grado di togliere letteralmente il sonno ai professionisti che in questi anni a Torino e altrove hanno provato, non sempre con successo, a salvare le aziende dal fallimento: con il metro della Procura, quasi ogni consulenza a un’impresa in crisi rischia di diventare un concorso nel reato.

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