GOVERNO DRAGHI

"Con gli aiuti salviamo il salvabile, ma il Piemonte deve cambiare"

Non ci sarà un ritorno al passato, affrontare la pandemia significa porre le basi per la ripresa economica che avrà connotati profondamente diversi. Il Recovery plan e le riforme attese da troppo tempo. Intervista al neo viceministro del Mise Pichetto

“Gli interventi economici servono per far sopravvivere chi altrimenti soccomberebbe in questa crisi profonda provocata dalla pandemia. Ma le enormi misure previste dal Recovery fund vanno anche contestualizzate e adattate in uno scenario che veda un Paese più moderno”. Gilberto Pichetto non è politico da slogan, né da frasi a effetto. Soppesa le parole e le misura come fa con i numeri, siano quelli del bilancio della Regione come gli accadde in passato o di quello dello Stato come relatore in commissione a Palazzo Madama. Domani pomeriggio il senatore piemontese, genesi politica nel Partito Repubblicano poi tra i fondatori di Forza Italia di cui a lungo sarà coordinatore regionale, giurerà di fronte a Mario Draghi e da quel momento sarà ufficialmente viceministro allo Sviluppo Economico. Con Giancarlo Giorgetti, titolare del dicastero, c’è stato un rapido scambio di opinioni l’altro giorno, ma con l’eminenza grigia della Lega, commercialista come lui, Pichetto ha un rapporto consolidato da tempo. Tra le deleghe che gli saranno conferite entro la settimana, è data per pressoché certa quella alle piccole e medie imprese e al settore della cooperazione, ma il ruolo del politico piemontese (nel totonomi era dato anche al Mef) sarà molto legato anche alla sua capacità ed esperienza proprio nel maneggiare con accortezza e competenza i conti. E se si sbaglia a maneggiare i miliardi del Recovery fund non ci sarà un’altra occasione.

Intanto siamo nella terza ondata del virus, come si sente un viceministro che deve occuparsi dello sviluppo economico e si mette al lavoro mentre i contagi fanno nuovamente chiudere molte attività?   
“Guardi, non lo dico in maniera rituale, ma perché è davvero così: ho condiviso totalmente l’impostazione data da Draghi nell’illustrazione del programma mettendo al primo posto la pandemia, anche sotto l’aspetto economico. Dobbiamo essere consapevoli tutti che combattere la pandemia significa creare le condizioni indispensabili per la ripresa economica”

Ma il Paese è pronto? E non solo guardando al presente, sconvolto e trasformato dall’emergenza sanitaria, ma nel suo profondo al netto di quanto è accaduto in quest’ultimo anno. 
“Questa è la grande preoccupazione. In passato da amministratore regionale ho gestito i fondi strutturali e il meccanismo del Recovery è quello, con l’aggiunta di obblighi per quanto riguarda una serie di riforme”.

Di quelle parliamo tra poco, lei cita i fondi e uno pensa subito: ecco l’Italia che non riesce mai a spenderli.
“Proprio così. Pensiamo che al 31 dicembre 2020 quasi la metà dei fondi strutturali del periodo 2014-2020 non è stata spesa, questo giustifica la preoccupazione e deve aumentare l’impegno”.

E poi ci sono le riforme come condizione posta dall’Unione Europea a cui accennava. Lì, su alcune, il Governo di salute pubblica potrebbe avere più di un colpo di tosse. Mettere d’accordo visioni opposte non sarà facile e il rischio di rallentare la ripresa e lo sviluppo può incombere.Lei da moderato, riflessivo e infaticabile negoziatore che soluzione prospetta?
“Bisognerà trovare la giusta mediazione rispetto alle forze che compongono e sostengono il Governo. Pensiamo alla riforma del lavoro, ma anche alla giustizia civile che s’incrocia con quella penale in un groviglio. È un governo di salute pubblica dove occorre avere la forza e la capacità di provare a mettere insieme ciò che unisce, cercando di evitare ciò che divide in assoluto”.

Oltre a queste difficoltà, tutt’altro di poco conto, che impongono un cambio di passo notevole, serve anche che lo faccia il mondo dell’impresa? 
“Che il Paese non sia del tutto pronto non vale solo per la parte pubblica. Siamo tutti un po’ conservatori e questo pone delle difficoltà, da superare, di fronte ai percorsi e alle procedure così come alle tempistiche previste dall’Europa e che fino ad ora l’Italia non ha dimostrato di avere la capacità per rispettare”.

Probabilmente ci sarà ancora qualche mese di proroga, ma la fine del blocco dei licenziamenti è un grosso nodo che verrà al pettine. Come gestire un passaggio pieno di incognite e quasi tutte per nulla rassicuranti?  
“La fine del blocco va affrontato rapidamente e in modi pragmatico. È chiaro che superare il blocco sic et simpliciter, così com’è, rischia di fare più danni rispetto a garantire benefici. Bisogna trovare dei percorsi meno generalizzati e mirati. I fondi devono servire a salvare chi è salvabile e ad accompagnare al cambiamento chi non può continuare. Non possiamo creare un sistema di mera assistenza”.

Di queste settimane il precipitare della vicenda Embraco, e qui la pandemia non c’entra, ma è solo una delle tante delocalizzazioni. Un tema che pesa molto sul sistema industriale del Piemonte, così come del Paese. Non c’è soluzione?
“Le delocalizzazioni sono un tema importante anche se sembra in gran parte passata la grande ondata di trasferimenti all’estero. Della prima crisi Embraco mi ero occupato nel 2004 e li c’era la questione del costo della manodopera, una voce oggi non certo la più rilevante, semmai ce ne sono altre che riguardano le riforme che ci chiede l’Europa. Il nostro è un Paese dove si viene poco a fare impresa e uno dei motivi è la mancata riforma della giustizia, i tempi ancora troppo lunghi. Se a un’azienda rubano il brevetto, avrà giustizia se va bene dopo dieci anni quando quel brevetto ormai sarà vecchio”.

Il suo ministero ha accumulato negli ultimi due anni più di cento tavoli di crisi. Sempre più spesso quando c’è una vertenza dalla Regione si invoca il tavolo ministeriale. Anche sul terreno dell’impresa il rapporto tra Stato e Regioni mostra dei limiti?  
“Ho fatto l’assessore all’Industria e anche al Lavoro per otto anni e di tavoli nazionali, pur nel periodo della grande crisi Fiat con 50mila esuberi e con tutte le conseguenze per l’indotto, ne avrò fatti 4 o 5 non di più. Tutto il resto veniva affrontato in assessorato. Oggi sembra un po’ uno scaricabarile, senza peraltro soluzioni eclatanti. Credo occorra trovare un metro di misura tra i rapporti tra Stato e Regioni così come dimostra la questione sanitaria”. 

Cosa può arrivare, nel bene o nel male, dal matrimonio tra Fca e Psa con l nascita di Stellantis, peraltro definita formalmente il risultato di una vendita ai francesi?
“Quella scossa della Fiat di allora, che ho appena citato, portò a rendere l’indotto piemontese dell’automotive molto più forte e proiettato verso altri marchi automobilistici. I 40mila occupati in Piemonte dimostrano che si è capaci a produrre. Stelantis ? Vedremo, certo non è più Fiat.” 

E il Piemonte non è più il protagonista di cambiamenti dell’economia del Paese come lo fu in passato.
“Forse perché è arrivato dopo altre regioni a subire la crisi. Pensiamo al Veneto che era molto più indietro e adesso è una delle locomotive, come l’Emilia Romagna. Noi avevamo il grande sistema manifatturiero. Dal biellese vent’anni fa si stava preparando lo sbarco in Marocco per formare personale da portare nelle aziende. Oggi i 40mila addetti sono 10mila. È colpa di qualcuno? No, è cambiato il mondo e continua a cambiare. Oggi con la pandemia e nel dopo, che speriamo arrivi presto, i cambiamenti saranno ancora più forti. Il Piemonte proprio per il suo passato, lontano di protagonista e più recente dove lo è stato meno, deve essere pronto, sul fronte pubblico e su quello privato, con la classe dirigente politica e imprenditoriale, così come tutto il Paese”.

print_icon