Nomi contro nomi

Molti torinesi hanno letto il rinvio delle consultazioni elettorali comunali come una tremenda sciagura, simile solamente a quello che si prova nel dover guardare coercitivamente un programma televisivo della Palombelli. Il voto è stato spostato dal mese di giugno a quello di ottobre sulla presa d’atto della recrudescenza del virus, situazione sanitaria che rende impossibili i comizi pubblici, come pure i più “banali” incontri utili a formare liste e programmi.

Tutto sembra sospeso nell’aria in attesa dell’avvicinarsi dell’estate, e le stesse candidature sono appese a esili fili (esclusa quella del noto imprenditore Damilano, la cui corsa è stata fermata temporaneamente dal Covid19) che di tanto in tanto si spezzano provocando rovinosi capitomboli e false partenze.  

Oramai da mesi, i cittadini dell’ex capitale sabauda leggono con stanchezza di lotte interne al Pd, di candidature autorevoli (come quella del chirurgo Salizzoni) sacrificate tramite manovre sotterranee, oppure di competizioni agonistiche spietate e mosse dalla sola ambizione personale. La stessa compagine del Centrosinistra riproduce dinamiche simili a quelle oramai patologiche che affliggono il Partito Democratico. Manifesti pubblicitari, articoli giornalistici e notiziari televisivi narrano di uno scontro che si combatte esclusivamente nelle stanze del potere. Una lotta senza quartiere e disputata richiamando ognuno le proprie le truppe, ma incredibilmente priva di contrapposizioni dovute a proposte programmatiche alternative.

L’unica attenzione che i partiti rivolgono in maniera tangibile a Torino si palesa quando viene espresso il rituale feroce giudizio negativo sull’operato della Sindaca uscente, Chiara Appendino: attacchi solitamente generici, peni di frasi fatte e privi di analisi lucide su questi cinque anni di amministrazione pentastellata. Mancano accuse circostanziate, come si direbbe in un’indagine di polizia, che vadano oltre al rimprovero sui tagli di bilancio e la conseguente minor cura di strade e verde pubblico.  Naturalmente nei “J’accuse” è difficile individuare la minima autocritica per i conti passivi creati dalle scorse giunte, ed ereditati dall’attuale, ma anche nello scontro politico risulta comunque complesso associare il nome di un qualsiasi candidato (anche solo in pectore) alla visione della metropoli post 2021.

In compenso sono già comparsi i primi manifesti commissionati e pagati da chi si propone nelle future vesti di Sindaco. Sugli spazi pubblicitari è possibile sin d’ora notare le foto di alcuni candidati Moderati, a fianco di quelle ritraenti Damilano e della new entry Ugo Mattei (protagonista di una recente manifestazione No mask svoltasi in piazza Castello). Slogan, inviti al voto di una lista oppure di un volto, ma nulla più: nomi e cognomi sono l’unica vera essenza del prossimo cambiamento alla guida di Palazzo Civico. Raramente viene associata una prospettiva a un viso, un progetto a un nominativo oppure un’idea a uno slogan, poiché a quel volto se ne contrappone semplicemente un altro: tripudio della logica incentrata sulle diverse appartenenze di clan. I torinesi sono chiamati in sostanza a esprimersi su un leader, e non sulla concreta valutazione di programmi antagonisti. Il medesimo secco rifiuto all’invito della Sindaca, rivolto a un’alleanza sul modello del governo Conte bis, è maturato senza confronti pubblici e dibattiti politici (di programma).

Un aspirante sindaco dovrebbe essere valutato su molti aspetti, non solo per la sua conoscenza dei confini delle otto circoscrizioni cittadine, ma soprattutto per l’onestà associata al progetto che porta in dote per migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini (meglio ancora se in un’ottica inclusiva). Considerazione forse banale, ma tutt’altro che scontata in una metropoli, come la nostra, dove la tensione sociale rischia di esplodere all’improvviso.

L’arresto dei partecipanti alla manifestazione che devastò il centro storico (il 26 ottobre scorso) evidenzia la reale sofferenza dei quartieri urbani. In questi ultimi anni è mancata la presenza di un Assessorato alle Periferie (magari del calibro di quello che inventò progetti come Urban), capace di ridurre le occasioni di disagio nel mondo giovanile e in quello dei “nuovi torinesi”. Lo stesso tessuto sociale è ormai giunto al limite dello sgretolamento, grazie a un lungo percorso teso a delegare alle parrocchie le azioni di contrasto alla povertà, e al mondo del volontariato le attività educative territoriali (con relativa uscita di scena della Città).

Mai come oggi Torino ha bisogno di un “Sindaco del sociale”, di un primo cittadino in grado di riportare il welfare al primo posto delle azioni amministrative: una priorità resa ancor più necessaria dai mesi di lockdown e dalla grande sofferenza dei giovani, nonché di chi lavora grazie alle piccole attività commerciali a conduzione familiare.

La fotografia di piazza San Carlo usata come luogo di riparo notturno riporta i nostri pensieri a epoche lontane che speravamo ampiamente superate. Tempi in cui gli “Ignorantisti” volevano l’istruzione lontana dal popolo mentre le vie porticate si animavano di senza tetto, specialmente dopo lunghi periodi di siccità nelle campagne o in seguito ai licenziamenti dei lavoratori che osavano tirare su la testa.

Girando per Torino si tocca con mano la difficoltà in cui vivono tante famiglie, ma pure la disperazione di un’infinità di persone sole. La Politica preferisce spesso non vedere cosa accade sulle strade e nelle case, così come sembra anelare a un universo parallelo dove si possa non far caso neanche delle devastanti conseguenze di un virus ancora attivo. È tempo di votare un programma attento alle persone, alla solidarietà e inclusivo. È ora di dare fiducia a idee, non a “Nomi”, di guardare al domani fieri del passato operaio e culturale che ha sempre sostenuto la città.

Meno manifesti sugli spazi pubblicitari e maggiore passione per una comunità allo stremo delle proprie forze.

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