Un sindaco "sociale"

Da un paio di sere prima dello scattare del “coprifuoco” dedico un’oretta a passeggiare per la città (la cosiddetta flanerie). Lo scenario che attraverso è magnifico quanto terribile. Torino di notte cambia volto, trasformandosi nel set di film catastrofici tipo “Io sono leggenda”, ma senza perdere nulla del suo fascino che, anzi, nel silenzio delle strade deserte diventa ancor più avvolgente.

Il capoluogo piemontese nel buio solitario svela misteri architettonici invisibili di giorno, e la sua aura magica domina ogni isolato dell’antico insediamento sabaudo. Scenario pronto a rapire l’animo del passante sensibile alla bellezza, ma anche crudele nell’assestare al medesimo un pugno allo stomaco quando appaiono gli effetti drammatici di un anno vissuto all’ombra del Covid.

È difficile tenere il conto delle attività commerciali che hanno chiuso i loro battenti definitivamente. Qualche esercente viveva già in situazioni limite a causa del caro affitto, e della concorrenza spietata delle vendite per corrispondenza, ma la maggior parte ha pagato le difficoltà sorte con l’arrivo dell’epidemia: una micidiale falcidia, impietosa con tutte le categorie merceologiche, a esclusione degli alimentari e delle farmacie. La noncuranza della burocrazia e a volte il cinismo privato (coloro che traggono profitto dalla tragedia in atto) hanno completato la triste opera distruttiva in corso.

Una città con isolati spenti è destinata a piegarsi alla notte. La grande incognita riguarda i cinematografi e i locali, di tendenza e a gestione familiare, di cui si possono osservare le vetrine non curate durante la chiusura forzosa: indizio anticipatore di gravi incognite su una eventuale prossima riapertura. Assenza di introiti e situazione di incertezza riguardante anche molti negozianti che hanno avviato la loro attività usando i proventi della liquidazione, ottenuta in seguito a licenziamento dal posto fisso: vero dramma nel dramma.

Nel tempo si sono potuti osservare i cartelloni della programmazione cinematografica ingiallire per la loro lunga esposizione al Sole. In seguito, quando in tardo autunno si è compreso che il virus non era solo di passaggio, è stata decisa addirittura la loro rimozione. I teatri in alcuni casi hanno lasciato in vista la sola intelaiatura sulla quale solitamente vengono fissate la date dei grandi appuntamenti (oppure il cartellone dell’imminente evento). La sensazione di uno sbaraccamento generale è drammaticamente nell’aria: per molti lo stop sanitario ha rappresentato il colpo di grazia alla propria attività.  Prima sono sparite le edicole e dopo tutto il resto.

A scuola ci avevano insegnato come le regole utili al progresso sociale dovrebbero essere osservate dalla collettività in modo spontaneo, e non per il solo timore di sanzioni o penosi richiami. Nessuna norma può sostituirsi al buon senso, alla pratica di abitudini utili al vivere collettivo, alla tutela dei singoli. La consapevolezza di essere tutti parte di una comunità forse avrebbe potuto salvarci da tante chiusure, e magari pure dalle ultime ondate di Covid. Qualche dimostrazione in meno di egoismo di massa, a opera di gradassi poco cresciuti, insieme all’osservanza di semplicissime pratiche di rispetto avrebbero di certo contenuto gli arrivi nei reparti di intensiva e pure il coprifuoco. Una Politica coerente avrebbe di certo garantito la Salute collettiva e le piccole attività economiche usando l’educazione prima delle multe.

Considerazioni queste ultime in voga nel primo Novecento e oggi relegate nel grande ambito dell’Utopia. La classe politica nella sua maggioranza cavalca posizioni in antitesi a quelle sociali, puntando su sentimenti individuali, egoistici, consumistici: segue i desideri di chi dall’ultima fila tirava le palline di carta e saliva sui compagni, e non tutela il resto della classe.

Tra errori grossolani, soprattutto da parte del sistema regionale, ed eroi dallo slogan “Muoiono solo gli anziani e i deboli”, la situazione si trascina da mesi e non permette di vedere la luce in fondo al tunnel. Il conto più salato lo pagano gli individui fragili e le piccole e medie imprese, in particolar modo il settore della cultura e dello spettacolo oltre i ristoratori (a tutti va la piena solidarietà).

Occorrerebbe più che mai un salto di qualità e ritrovare tutti insieme il concetto di responsabilità, di tutela sociale. Ogni persona, ogni esercente, ogni addetto alle sale deve essere responsabile del suo ambito di azione e rendere tali i clienti e gli spettatori: un obbligatorio ritorno a una collettività solidale e non militarizzata; un insieme di persone che si protegge e contiene il solito bullo (quello che corre sui marciapiedi ansimando e soffiando sulle facce altrui, quello che starnutisce a bocca aperta o viola ogni regola igienica perché “troppo figo” per non farlo).

È logico come tutto questo rientri nei principi etici e che da soli questi non bastano. Il Pubblico deve fare la sua parte rafforzando il suo sistema sanitario, incrementando la schiera dei medici, degli operatori, e rendendo sicuro il trasporto delle persone dotando i mezzi (potenziati di numero e passaggi) di un controllare dedicato al contingentamento dell’ingresso dei passeggeri quando all’interno del bus non è più garantita la protezione igienico sanitaria.

Il grande sogno di un mondo migliore, ossia la grande Utopia di cui non si può fare a meno anche nel quotidiano dell’era Covid, urta con istituzioni che lo ripudiano con determinazione. Una speranza di cui non si trova traccia neppure nel dibattito preelettorale: tra “Torino bellissima” e nomi da primarie, perennemente sospese nell’aria, si perde l’orizzonte della fatica e del sopravvivere giornaliero di tante persone.

È davvero tempo di un sindaco o di una sindaca “sociale”.

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