Nessuno ha l'esclusiva del voto cattolico

Il pluralismo politico dei cattolici è un fatto storico ormai largamente acquisito. Del resto, neanche ai tempi della Democrazia Cristiana c’era una convergenza totale dei cattolici italiani sul simbolo dello scudo crociato. Certo, i tempi sono radicalmente cambiati rispetto alla esperienza cinquantennale del partito di De Gasperi, Moro, Andreotti, Fanfani, Donat-Cattin e molti altri statisti. Dopo la fine di quel partito e già con l’avvento del Ppi di Mino Martinazzoli e di Franco Marini, si era sperimentato e praticato una irreversibile e definitiva pluralità delle scelte politiche dei cattolici italiani. Tanto sul versante della sinistra quanto, soprattutto, sul versante del centro destra. Non a caso, il consenso della Lega Nord di Umberto Bossi all’inizio degli anni ‘90 aveva quasi meccanicamente sostituito il consenso elargito alla Dc per alcuni decenni soprattutto nelle cosiddette “zone bianche” del Nord. Mentre il partito di Berlusconi registrava una secca adesione dei cattolici italiani a livello nazionale, soprattutto del mondo dei praticanti. Non stupisce, pertanto, che nell’attuale fase politica quello che conta non è tanto il consenso reale dei cattolici al singolo partito quanto, semmai, l’incidenza politica della cultura cattolica – nelle sue diverse versioni democratica, popolare e sociale – nelle concrete scelte che vengono fatte nelle assemblee elettive.

È appena sufficiente questa semplice considerazione per arrivare alla conclusione che anche alle prossime elezioni amministrative torinesi non si può parlare di “voto cattolico” alla coalizione di sinistra o allo schieramento di centrodestra. C’è una pluralità di scelte elettorali, appunto. Chi sceglie il “civico” Paolo Damilano e chi l’esponente della sinistra Stefano Lo Russo e chi, forse in minor misura, la candidata del partito di Conte e di Grillo. È la democrazia bellezza, per citare una celebre e bella espressione di Massimo D’Alema.

Ora, quello che conta non è tanto il rivendicare – cosa impossibile, com’è evidente a tutti – il cosiddetto “voto cattolico” alla propria parte politica quanto, semmai, saper incidere attraverso la propria cultura nelle concrete scelte politiche funzionali al rilancio e allo sviluppo della città. Perché, come ricordavo poc’anzi, non solo c’è una profonda, e del tutto legittima e comprensibile, divisione politica e culturale tra i cattolici torinesi – e, di conseguenza, italiani – ma addirittura all’interno della stessa componente dei Popolari. Ovvero, la mia area politica e culturale dopo la fine della Dc e l’archiviazione della esperienza del Partito popolare italiano. Anche in quest’area si registra, a Torino come altrove, una dialettica e un confronto ricco e articolato che poi sono funzionali ad una inevitabile e conseguente divisione politica ed elettorale. Cioè, ad un legittimo pluralismo delle varie opzioni politiche.

Certo, poi molto dipende anche dalla qualità del candidato a sindaco della città. La sua cultura, il suo progetto, il suo carattere, la sua provenienza, la sua professione e il suo approccio concreto e reale con la città. Ingredienti che cambiano da città a città e che possono contribuire a veicolare lo stesso consenso politico. Ma una cosa è certa, almeno per quanto riguarda la prossima consultazione elettorale torinese. Ovvero, nessuno può rivendicare l’esclusività del voto cattolico. L’epoca dei “cattolici professionisti” come diceva Donat-Cattin o dei “sepolcri imbiancati”, per dirla con Martinazzoli, sono ormai alle nostre spalle. Oggi si deve prendere atto che il pluralismo delle scelte politiche è un dato di fatto difficilmente reversibile. È bene prenderne atto per evitare di innescare equivoci e disegnare scenari inesistenti.

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