GRANA PADANA

Da federalista al nazionalismo,
così Salvini ha svoltato a destra

La parabola della Lega nelle parole di Roberto Cota, ex governatore del Piemonte e per dieci anni segretario regionale del Carroccio. "Bossi quando sentiva puzza di fascismo faceva scattare tutti gli allarmi". E sul Green Pass ha rotto i legami con la base produttiva

“Mai coi fascisti. Mai. Mai”. Umberto Bossi lo aveva ripetuto più volte quel “mai” al congresso della Lega Nord del 1994, lo stesso anno in cui Silvio Berlusconi aveva annunciato la discesa in campo, Gianfranco Fini aveva già intrapreso la strada per la svolta di Fiuggi e un anno prima allo Yad Vashem aveva definito il fascismo come parte del male assoluto. "Io sono antifascista, anticomunista, antiestremista: per me gli estremismi non vanno mai bene di qualunque colore siano. Fascisti e comunisti sono fuori da storia, non torneranno”, dice Matteo Salvini dopo i fatti di Roma, annunciando che la Lega venerdì non sarà alla manifestazione promossa dai sindacati dopo l’assalto alla sede della Cgil.

Roberto Cota, ci sono quasi trent’anni a separare le parole di Bossi da quelle di Salvini. Oltre al tempo c’è anche dell’altro?
“C’è tutto il cambiamento della Lega. Da movimento federalista a partito che ha progressivamente abbandonato il suo core business per arrivare a una posizione nazionalista che si è saldata a una concezione centralista non più di centrodestra, ma di destra”. 

Prima tessera della Lega Nord a 22 anni, a 24 segretario cittadino a Novara dove viene eletto anche consigliere comunale, poi per Roberto Cota un percorso in crescendo: segretario provinciale, regionale (anche se il vocabolario padano traduceva in “nazionale”), presidente del consiglio regionale, deputato, sottosegretario, capogruppo alla Camera e poi presidente della Regione per un mandato che finirà con un anno di anticipo per l’annullamento delle elezioni del 2014. Dopo alcuni anni lontano dalla politica e dal suo ormai ex partito in cui non si riconosce più, alla fine del 2020 approda in Forza Italia quando il partito di Berlusconi non è certo quello dei fasti ormai lontani.

Il suo distacco dalla Lega ha trovato ragione anche nello scivolamento a destra del partito? 
“Non mi ritrovavo nell’operazione di andare in un direzione nazionalista che era l’opposto di quella federalista. E poi quello spazio era già occupato, quella con Fratelli d’Italia era una competizione senza senso. Alla fine mi sono reso conto che il fedralismo e la questione settentrionale, così come le problematiche del mondo produttivo del Nord hanno più attenzione da parte di Forza Italia che non dalla Lega di Salvini”.

Che, intanto, non ha solo cancellato il riferimento al Nord nel nome, ma ha varcato la linea gotica, è scesa al Sud e ha ammiccato a movimenti dell’estrema destra. Salvini candida Mario Borghezio alle europee del 2014 nella circoscrizione Centro e l’uomo che rispondeva al telefono esordendo con Padania Libera va dall’ex primula nera Stefano Delle Chiaie.
“Borghezio diventa ufficiale di collegamento perché con quel tipo di ambienti, con quel mondo aveva sempre avuto rapporti. È un fatto oggettivo”.

Però fino a quando c’è stato Bossi…
“Bossi era quello di più lontano ci può essere da quegli ambienti. Quando ne annusava un possibile avvicinamento faceva scattare tutti gli allarmi possibili”. 

Lo spostamento a destra coincide con quello verso il Sud?
“Ovviamente. È la conseguenza del passaggio dal federalismo al nazionalismo. E lo sbarco al Sud ha comportato prendere la classe dirigente che c’era con un meccanismo di selezione a dir poco complicato se non spesso inesistente”.

Lei ritiene che ci sia una sorta di restaurazione rispetto alla svolta di Fini, una cesura meno dichiarata rispetto al fascismo da parte di Giorgia Meloni che risulta meno netta rispetto a certe presenze nel suo partito, ma anche nella Lega?  
“Torniamo indietro di un bel po’ di anni: c’era Forza Italia che era l’anima moderata e centrista, poi la Lega componente nordista e federalista e poi c’era An la destra classica e tradizionale. Fini si mise in testa di insidiare Berlusconi e per questo, ma forse non solo per questo, cercò di spostarsi al centro. Un fatto è certo, anche per allora, Bossi e il suo partito non avevano niente a vedere con le posizioni che ci sono oggi, quelle nazionaliste e che talvolta ammiccano ad ambienti che Umberto ha sempre voluto tenere lontani come la peste”. 

E che adesso finiscono imbarazzano. 
“Voglio dire una cosa a proposito di alcune inchieste giornalistiche, alcune narrazioni: non si può negare che ci sia molta strumentalizzazione, ho visto certe trasmissioni che quasi mi veniva voglia di difendere Salvini e la Meloni”.

I militanti, gli elettori, che lei conosce meglio di molti altri, come pensa vedano quel che sta capitando? 
“L’elettorato leghista nel medio e lungo periodo è portato a ragionare su questo e quindi davanti ai problemi del Nord e del mondo produttivo si chiede cosa c’entrino con la Lega le manifestazioni contro il Green Pass, solo per fare un esempio. Attenzione però, se si riceve un attacco strumentale la reazione è quella della difesa e quindi di fare quadrato. Ciò non toglie che la prospettiva è chiara: quando la base fa un’analisi non può che chiedersi cosa c’entrino con la sua idea politica queste pagliacciate, o peggio. L’industriale, la partita Iva, non è che si ribella al Green Pass, anzi ha un atteggiamento diametralmente opposto perché lo ritiene uno strumento per ripartire, per non tornare a chiudere. Questo non ci vuole molto a capirlo”.

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