La fabbrica e la coscienza di classe

La televisione a volte concede sorprese positive. Evento talmente raro che quando si verifica il dubbio del telespettatore è quello di trovarsi innanzi a un banale errore di programmazione. Di regola le ragioni di mercato dominano, obbligando le emittenti ad assoggettarsi alle regole dell’audience, naturalmente a scapito di palinsesti tematici di qualità culturale.

Tra un giallo bello e uno brutto, dopo un telegiornale splatter dedicato quasi interamente alla pandemia, è estremamente piacevole incappare proprio su Rai Storia, e nello specifico su un film di fantascienza girato nel 1963 a Torino da Ugo Gregoretti. Il titolo dell’opera in oggetto è “Omicron”, ossia la storia di un operaio torinese, Angelo Trabucco, ritrovato morto sulle rive del Po dalle parti del Palazzo Vela.

L’uomo, lavoratore della grande fabbrica Sms (ogni riferimento alla Fiat è puramente voluto), poco prima di venire dissezionato all’obitorio si sveglia, iniziando a muoversi con gesti del corpo meccanici e alquanto scoordinati. Trabucco non esiste più, il suo corpo è oramai posseduto da un alieno, Omicron, che ha preso sembianze umane per studiare il nostro pianeta: l’extraterrestre deve riferire quanto apprende al proprio comandante, che lavora a un piano di invasione della Terra.

Il risveglio della coscienza di Trabucco, coincidente con il rientro in fabbrica dell’ospite alieno, mette a repentaglio la missione di Omicron: la forza dell’amore per un’addetta alla mensa e la passione dirompente per la lotta sociale sembrano avere la meglio sull’abitante del pianeta Ultra. Oltre a regalare le immagini di una piazza San Carlo ante sessantotto, il film circuisce lo spettatore facendogli credere di assistere a una pellicola del genere fantascientifico, mentre in realtà l’opera cinematografica è decisamente impegnata, a tal punto da poter meritare il titolo di “film militante”.

Gregoretti con il suo lavoro artistico ha toccato davvero tutti i grandi temi cari alla lotta operaia: la catena di montaggio, lo sfruttamento dei dipendenti, il cinismo del capitalismo, il caporeparto kapò e soprattutto la solidarietà di classe. Alla fine gli alieni vincono nel modo più semplice: entrando nei corpi di chi appartiene alla classe dirigente mondiale, possedendo poche persone che esercitano il potere su tutto e sulla moltitudine.

Bella trama, ottima idea, decisamente interessante l’uso di una storia fantascientifica per trattare temi sociali in maniera profonda. L’unico punto di sofferenza, dopo la visione, è la riflessione su quanto è accaduto nella nostra società pochi anni dopo la venuta cinematografica di Omicron, cosa è stato della classe operaia nel frattempo.

Qualche anno dopo il 1963, data di uscita del film, è nato il grande movimento politico sociale del ’68, poi quello del ’77, è arrivata ad arte la strategia della tensione, sono giunti gli anni ’80, ha visto la luce ancora qualche piccolo movimento studentesco nel ’90 e poi è arrivata la fine di tutto. Appena vent’anni dopo Omicron, anni ’80, nulla è più come prima nella nostra comunità organizzata: in crisi assoluta la solidarietà di classe, in crisi la fabbrica, più vivo che mai invece lo sfruttamento.

Se l’alieno scendesse ancora una volta tra noi non cercherebbe più di occupare il corpo di Trabucco, per spiare la Terra, ma probabilmente sceglierebbe quello di un rider, di un giovane con partita Iva, di un precario oppure di un migrante rifugiato. Il finale però sarebbe diverso, rispetto a quello voluto da Gregoretti nel ‘63: Omicron vittorioso avrebbe disintegrato facilmente Trabucco, cogliendo l’apatia dell’uomo ospite nei confronti di qualsiasi emozione che non fosse dettata dal consumismo. La trama dell’originale lungometraggio non concede al pubblico il lieto fine, poiché Trabucco muore e Omicrom non riesce a tornare a casa, ma evidenzia come senza lotta e senza amore l’operaio non avrebbe raccolto l’energia necessaria per ritrovare coscienza e resistere al potere dell’alieno.

L’insegnamento diffuso dal lavoro di Gregoretti è valido ancora oggi. Quando si smette di lottare, si smette pure di sognare, e quando non si sogna più la sconfitta è senza appello.

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