Il tramonto dei partiti "leggeri"

Il lento ma inesorabile epilogo del populismo grillino apre una nuova fase politica nel nostro Paese. Tra gli elementi decisivi di questo crepuscolo politico c’è una conseguenza – tra le molte che si potrebbero citare – diretta che dovrebbe, e potrebbe, invertire la rotta della politica italiana. Ovvero, la ritirata – e quindi la progressiva eclissi – dei cosiddetti “partiti leggeri”. O meglio, i “non partiti”. E cioè, partiti che si sono trasformati inesorabilmente in cartelli elettorali, strumenti nelle mani del “capo” o guru di turno, luoghi che non praticano più il radicamento territoriale e la rappresentanza di interessi sociali e che, soprattutto, non producono più alcuna elaborazione politica e culturale. Perché il tutto è legato esclusivamente e radicalmente alla simpatia, all’empatia e alla popolarità del capo. Se, malauguratamente, il tasso di gradimento del capo – i “leader” appartenevano alla prima Repubblica, per dirla con l’indimenticabile Mino Martinazzoli – declina, tramonta la stessa credibilità dell’intero partito. O meglio, del cartello elettorale.

Ecco perché il tramonto dei partiti leggeri invoca, al contempo, il ritorno dei partiti. Non quelli di massa del passato che erano strumenti politici di grande caratura e di rara qualità politica e culturale accompagnati e caratterizzati da una classe dirigente di livello. No, è sufficiente – per fermarsi al dettato costituzionale – che dopo la stagione del populismo, dell’antipolitica, della demagogia, del giustizialismo e dell’antiparlamentarismo, ritorni di attualità l’articolo 49 della Costituzione repubblicana. In particolare, quando ricorda “il metodo democratico” che dovrebbe caratterizzare i partiti nel “determinare la politica nazionale”. Partiti, cioè, che devono ridiventare strumenti politici capaci di condizionare e orientare la politica italiana attraverso la riscoperta delle culture politiche da un lato e, soprattutto, con un rinnovato e contemporaneo radicamento territoriale dall’altro.

Certo, non sarà un’operazione né facile e né semplice. Anche perché non basta il tramonto di una sub cultura – quella del populismo a cui facevo riferimento all’inizio di questa riflessione – per determinare meccanicamente il decollo di una stagione caratterizzata da una qualità della politica e, di conseguenza, di una autorevole classe dirigente. Le scorie del populismo nostrano albergheranno ancora a lungo nel sottosuolo della società italiana. Ma è inesorabile che, dopo il sostanziale fallimento e il declino di quella prassi, sarà la stessa pubblica opinione ad invocare e a richiedere una svolta politica. E il capitolo dei partiti, credibili, democratici, popolari e riformisti sarà al centro dell’attenzione. Non a caso, il tema della personalizzazione sta cedendo il passo di fronte alla necessità di avere partiti che esprimono una visione della società e una proposta politica concreta e percepibile. E per centrare questo obiettivo, come ovvio e persin scontato, non si può e non si deve escludere la presenza di partiti che non assomigliano neppur lontanamente a quei cartelli elettorali con cui abbiamo fatto i conti in questa stagione di decadenza politica, culturale, progettuale ed etica. Un elemento, questo, che richiede in ultimo, ma non per ordine di importanza, il ritorno di una classe dirigente autorevole e qualificata. Un tassello che rappresenta l’elemento decisivo per ridare credibilità alla politica e qualità alla nostra democrazia e che in un passato, neanche tanto lontano, era la priorità dei partiti democratici, popolari e di massa. Quel che conta, comunque sia, è chiudere definitivamente la stagione dei partiti leggeri, dei cartelli elettorali e della politica “liquida”.

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