La violenta fine dell'Eurasia

La fabbricazione di bugie ad hoc ha caratterizzato il conflitto politico sin dall’inizio della Storia moderna. Non esiste un evento del passato che non sia stato in qualche modo sorretto da menzogne.

Nel 2006, un film diretto da Corrado Guzzanti, Fascisti su Marte, oltre ad essere una magnifica parodia del ventennio mussoliniano si è rivelato un incomparabile manuale didattico della retorica di guerra. Gli slogan in camicia nera, e i bollettini giornalieri del camerata Santodio, sono la rappresentazione perfetta della degradata comunicazione bellica.

La retorica di guerra è senza dubbio una violenza prodotta dalla falsità, dalla volontà di seminare odio per raccogliere reazioni sempre più feroci. Caduto il Muro di Berlino, increduli abbiamo assistito ad una mutazione dell’informazione stessa, la quale è passata dall’essere sostanzialmente faziosa e antisovietica alla più complessa comunicazione manipolatrice, sovente costruita negli studios cinematografici.

A riprova delle difficoltà che affronta chi vuole conoscere i fatti, è sufficiente pensare ai tanti reportage provenienti dalle numerose guerre fatte per ribaltare il mondo uscito dal Patto di Jalta. Caduto l’impero del Cremlino è iniziata l’aggressione diretta a chi è riuscito a sopravvivere al crollo.

La prima nazione a farne le spese è stata la Jugoslavia, da sempre appartenente ai “Paese non allineati”.  Un conflitto nato con la benedizione di chi desiderava spartirsi economicamente quelle terre, e che ha mosso i suoi primi passi in Slovenia e gli ultimi a Belgrado: città capitale della Serbia bombardata per intere settimane anche dalla nostra aviazione.

In seguito, grazie a una trappola ben ideata dal nome Kuwait, è stata la volta del bombardamento dell’Iraq e poi anni dopo della Libia e della Siria, senza scordare quelli dello Yemen e della Somalia. Le immagini provenienti da questi fronti, aperti (dicevano) per la Democrazia, erano asettiche, prive di morti e di edifici distrutti. Neppure le ripetute piogge di missili americani su Baghdad hanno causato vittime e sventramenti di palazzi: il conflitto in Vietnam aveva insegnato che meno si vedeva, dalle proprie comode case, e meglio era per il morale del proprio popolo.

I pochi giornalisti che in questi ultimi decenni hanno provato a narrare al pubblico i fatti, in modo il più possibile oggettivo, sono stati regolarmente rimossi dalle loro sedi estere, come ci ricorda l’esilio forzato imposto a Giulietto Chiesa. Una retorica di guerra via via crescente, quindi, sino a diventare censura pura. Lo conferma anche la tragedia di cui sono state vittime Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, due omicidi ancora oggi avvolti dalla nebbia della “Ragione di Stato”.

I miei coetanei hanno ancora davanti ai loro occhi le grandi ricostruzioni della verità bellica tramite l’uso di set e macchine da presa. Negli anni ’90, un periodico romano diretto da Diego Novelli e Claudio Fracassi, Avvenimenti, aveva dedicato alcune sue pubblicazioni alle fake fabbricate dai conflitti armati. L’elenco era davvero lungo, partiva dalla Guerra del Golfo, di cui ricordiamo la foto del gabbiano ricoperto di petrolio (immagine scattata però nella guerra Iraq-Iran) e terminava con le finte fosse comuni di Timisoara, che costarono la fucilazione dei Ceausescu (il Presidente della Romania e sua moglie).

Quest’ultima guerra è drammatica, ma non solo per la grave tragedia umana in atto. Le bombe hanno raso al suolo oltre le abitazioni civili anche l’articolo 21 della nostra Costituzione, quello che sancisce la “Libertà di parola”, insieme alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. La libera informazione, già malconcia, è morta schiacciata sotto una gigantesca montagna di menzogne e di confronti mai equi, dove nel nome del libero dibattito avviene il “pestaggio” di chi dissente, soprattutto di chi invoca la Pace oppure si permette di illustrare analisi geopolitiche che sfuggono alle logiche ministeriali.

Evidentemente a qualcuno d’oltreoceano il progetto euroasiatico non è piaciuto per niente; non gradendo nello specifico la cosiddetta Via della Seta, quindi il commercio con la Cina, e tantomeno la sempre più stretta relazione commerciale europea con la Russia. La guerra, iniziata nella distrazione generale nel 2014, ha messo la parola fine al commercio che guarda ad est, riproponendo da lì in avanti un Mercato più simile alla moderna colonizzazione culturale e consumistica che al semplice scambio mercantile.

Spicca come una parte dei capitalisti italiani, gli stessi che controllano e sono proprietari di televisioni e importanti quotidiani, abbia saldato una ferrea alleanza con i colleghi “democratici” degli States: patto siglato a scapito degli industriali in relazione commerciale con Mosca.

Il pensiero corre verso i grandi amministratori delegati, i grandi editori, che hanno sostenuto prima Monti e ora Draghi: una sorta di potente corporazione atlantista determinata nel contrapporsi alle oligarchie orientali, e che sembra ispirare i gravi toni bellicisti attualmente in voga tra politici e giornalisti.

Sono tanti coloro che auspicano, tramite i media di proprietà dei top manager, lo scoppio di una guerra nucleare. Ma in alternativa ritengono che per ora basti armare la parte attualmente resistente, prima lo erano gli indipendentisti, in modo che la macelleria ritardi sempre più la fine delle azioni belliche sino a riuscire a logorare l’invasore. Un conflitto alimentato da tutte e due le parti in campo con la costante creazione di brutali falsità. A farne le spese oggi soprattutto i civili ucraini, gli abitanti del Donbass e i tutti soldati belligeranti, chiamati a morire per gli interessi di pochi.

Del resto, è risaputo come dopo ogni conflitto inizi il business della ricostruzione e, di solito, chi fa business ha risorse tali da superare con successo pure la distruzione planetaria.

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