SACRO & PROFANO

Repole alla ricerca dell'identità, sulle orme del cardinale Zuppi

Primi gravosi impegni del neo arcivescovo di Torino, dai festeggiamenti in onore di Santa Rita all'elezione del presidente della Cei. Meno presenzialismo e più ascolto delle comunità. Il mancato autodafé di Enzo Bianchi. Un ricordo di Sodano

Primi passi del nuovo arcivescovo. A Torino ha presieduto i festeggiamenti in onore di Santa Rita partecipando in piviale alla tradizionale processione accanto al parroco e suo sodale monsignor Mauro Rivella, da anni il più “episcopabile” dei “boariniani” e che nei suoi anni romani ha potuto sperimentare, in qualità di segretario dell’Apsa, la “misericordia” di papa Francesco che lo ha rimandato a Torino senza tanti complimenti. Tutti attendono con ansia di conoscere a quale ruolo monsignor Roberto Repole lo destinerà. Il quale, catapultato dal tranquillo ruolo di docente e studioso frequentatore di convegni ai gravosi impegni pastorali, domenica scorsa, dopo il conferimento del ministero di lettore in cattedrale, è apparso piuttosto provato. Ha presieduto pure per la prima volta il consiglio presbiterale e l’impressione è che assisteremo ad un cambiamento di ritmo, non più il vescovo girandola e presenzialista alla Nosiglia, ma un pastore in più attento ascolto delle comunità. Anche in una delle sue prime interviste, monsignor Repole ha usato per ben due volte la parola identità – una parola che i vescovi e i teologi progressisti evitano in quanto, insieme a verità, sarebbe associata alla violenza – ma in assenza della quale «non c’è vero dialogo». In ultimo, il primo consiglio presbiterale ha deciso la riduzione ad usi profani della cappella di S. Giovanni XXIII e della chiesa di S. Rocco di Venaria. Come inizio, non proprio un segnale esaltante.

Lunedì, Sua Eccellenza è poi sbarcato a Roma dove, indossando per la prima volta l’abito piano filettato, ha partecipato con i confratelli vescovi della Cei, all’incontro a porte chiuse con il papa. Alcuni coraggiosi hanno posto al Santo Padre alcune domande, soprattutto di chiarimento rispetto alle sue ultime esternazioni, ottenendo risposte alcune chiare e altre vaghe. Fra i coraggiosi – va detto – monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, il quale ha chiesto rispettosamente conto della mancata partecipazione di Francesco all’incontro di Firenze. La risposta è stata che gli era stata segnalata la presenza di alcuni soggetti implicati nell’industria delle armi. Il papa ha insistito molto sull’istituzione dei tribunali diocesani e a chi ha eccepito, ha raccontato di un vescovo che si era rivolto a lui con le obiezioni sollevate dal suo tribunale ecclesiastico rispetto allo scioglimento di un vincolo matrimoniale. La risposta di Bergoglio al povero presule, lapidaria e significativa, è stata in perfetto stile gesuitico – ad una domanda rispondere sempre con una domanda –: «Lei ha una penna sulla scrivania?». Un chiaro invito ad esercitare la potestà giudiziaria del vescovo senza troppo considerare le ragioni del diritto e, di conseguenza, procedere all’annullamento.  Naturalmente, come era prevedibile, i vari vescovi canonisti presenti, tra cui monsignor Egidio Miragoli di Mondovì, sono rimasti di stucco.

Il presidente «eletto» dall’assemblea non poteva che essere il cardinale Matteo Zuppi e la sua nomina è stata accolta dai media progressisti come quella di un nuovo Mosè. Michele Serra è arrivato ad auspicare che anche la sinistra trovi finalmente il suo «don Matteo». Ma qual è il segreto di questo ecclesiastico tanto ammirato e osannato dal progressismo politicamente correttissimo? Intanto andare in bicicletta, come Delpini a Milano e Lojudice a Palermo (quest’ultimo ha pedalato anche in cattedrale) e poi andare d’accordo con tutti e stare sempre dalla parte giusta, dire la cosa giusta al momento giusto, unire, legare, non separare e, come dicono le malelingue, «esplorare l’ovvio»: prossimità, ascolto, periferie. Avrà un imitatore anche a Torino? Sicuramente, l’arcivescovo di Bologna è in pole position per il papato perché oggi avere i media egemoni dalla propria parte non sarà troppo evangelico ma è fondamentale. Poi, se oggi si dice A, domani si potrà dire B perché dove soffia il vento si posiziona la bandiera.

Nel suo primo saluto, il neopresidente della Cei ha delineato il profilo di una Chiesa «del primato del papa, della collegialità dei vescovi, della sinodalità». È stato abbastanza facile osservare, da parte di qualcuno, che di collegialità se ne vede poca, di sinodalità si vedrà mentre il primato del papa non si è mai esercitato con tanto autoritarismo almeno dai tempi di Pio XI. Allora però i risultati si vedevano ed erano tutti positivi tanto che, dicono in Vaticano, delle riforme del papa lombardo, «ancora si campa».

A guastare tanta melassa ci aveva pensato lunedì scorso su Repubblica il consueto sermone di Enzo Bianchi che questa volta però ha suscitato fra i preti, per il suo realismo e per la sua franchezza, un certo stupore. Il quadro tracciato dall’ex priore di Bose è veritiero quanto desolante e mette indirettamente in discussione almeno cinquant’anni di pastorale post-conciliare per cui oggi – come da lungo tempo evidenzia la minoritaria ed emarginata componente tradizionale,  sempre tacciata di profetizzare la sventura – «la Chiesa brucia, il gregge è smarrito e soprattutto è diviso più che mai», e dove si constata «una fuga delle donne e soprattutto dei giovani dalla liturgia». Rispetto a quest’ultimo rilievo, in effetti, dopo aver visto la Messa di ordinazione del nuovo arcivescovo, non possiamo dar loro torto. La causa risiederebbe – e anche questo è un refraindei tradizionalisti – «in una crisi innanzitutto della fede» per cui «la Chiesa oggi è stanca, esaurita, fiaccata e manca la fede a partire dal popolo di Dio». Perché la verità è questa – e a sentirlo dire da Enzo Bianchi fa un po’ impressione: «Se non si crede che Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte, che ragione c’è a professarsi cristiani? Se non si crede che la morte è solo un esodo, che ci sarà un giudizio sull’operato umano e una vita oltre la morte, una vita senza più pianto né lutto, perché si dovrebbe diventare cristiani e perseverare in questa appartenenza? Non basta l’etica per essere cristiani: gli esseri umani sanno darsi un’etica. Non basta la spiritualità: gli esseri umani sanno crearsela. Ma se viene meno la fede, se non c’è più la memoria che trasmette la fede, come sarà possibile essere cristiani».

La vera urgenza starebbe allora – sembra di risentire le accorate e dimenticate parole del magistero di Benedetto XVI – nel «ridestare la fede nuda e appesa alla croce, senza rincorrere l’opinione dominante e senza ridurre la fede a messaggio etico». Naturalmente, circa le cause di questa impietosa e lucida analisi, l’autore dell’articolo è esente da ogni colpa, non c’entra nulla e non ha nessuna autocritica da fare, nemmeno per avere per anni dalla sua Bose, come tutti sanno ed è ampiamente documentato – si veda: Il cambio della guardia. Bose ed Enzo Bianchi comeesempio di transizione della nuova Chiesadi Nicola Bux e Aldo Maria Valli – diffuso un umanesimo teologico per il quale, solo per fare alcuni esempi, Cristo viene ridotto ad un semplice uomo che avrebbe preso coscienza della sua filiazione divina solo gradualmente oppure la sua concezione verginale, i miracoli e la stessa Risurrezione si ammettono a parole, ma in realtà vengono ricondotti al mero ordine naturale. E si potrebbe continuare. Insomma, al quadro descritto l’ex priore di Bose ha dato negli anni un suo ragguardevole contributo. Un autorevole ecclesiastico ha commentato, dopo aver letto l’articolo,    che nella Chiesa di Francesco per aprire finalmente gli occhi bisogna aver assaggiato il bastone della sua misericordia ed essere caduti in disgrazia nell’inner circledi Santa Marta. Perché le vie del Signore sono veramente infinite.

È mancato a 94 anni il cardinale piemontese Angelo Sodano che fu segretario di stato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e poi fino al 2019 decano del collegio cardinalizio. Era nato ad Isola d’Asti nel 1927 da Giovanni e Delfina Sodano, secondo di sei figli. Il padre, esponente della Coldiretti, fu deputato al parlamento italiano nelle file della Democrazia Cristiana dal 1948 al 1963. Entrato, dopo l’ordinazione sacerdotale e gli studi romani, nella diplomazia pontificia, fu elevato all’episcopato e inviato nunzio apostolico in Cile dal 1970 al 1980 durante il periodo in cui prese il potere la dittatura di Augusto Pinochet. Sempre stretti furono i suoi legami con la famiglia e la sua terra astigiana e almeno due nomine episcopali, quella di Severino Poletto a Torino e di Alfonso Badini Confalonieri a Susa, sono dovute alla sua influenza che, negli anni di Giovanni Paolo II – spesso in concorrenza con Joseph Ratzinger e il segretario del papa Stanislaw Dziwisz – fu notevole e anche oggetto di polemiche.

Considerato da molti un conservatore, era soprattutto un diplomatico, attento agli equilibri ecclesiali. Valga un esempio. Nel 2001, papa Giovanni Paolo II annunciò pubblicamente la nomina dei nuovi cardinali, tra di essi non figuravano però né Walter Kasper, segretario del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, né Karl Lehmann, arcivescovo di Magonza, antesignani, soprattutto quest’ultimo, delle attuali posizioni del sinodo tedesco. Ambedue allievi e seguaci di Karl Rahner ed esponenti di primo piano del progressismo tedesco, la loro esclusione fu voluta, si disse, per motivi dottrinali, dal cardinale Ratzinger, destò la protesta di tutto l’universo «avanzato». La settimana dopo, il papa, dopo la recita dell’Angelus con i fedeli in piazza San Pietro annunciò – con pratica inconsueta e abbastanza umiliante – l’inserimento dei due prelati tedeschi fra i nuovi cardinali. A far cambiare idea al Santo Padre era stato il cardinale Sodano timoroso e spaventato dalle proteste progressiste di cui si era fatto portavoce. Oggi, un evento simile non potrebbe mai succedere e forse c’è da rammaricarsene. Un ultimo particolare. In quel concistoro rivestì la porpora anche un certo Jorge Mario Bergoglio. Escluso dal conclave del 2013 per aver raggiunto gli ottant’anni, un testimone attendibile racconta che quando dalla cappella Sistina uscì la figura del nuovo papa, il cardinale Sodano esclamò: «Questa volta ce l’hanno fatta!». Per un conoscitore dell’America Latina e delle sue dinamiche ecclesiali come lui, era detto tutto.

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