Transizione radical chic

Non siamo il partito della biella e del pistone, perché dietro l’idea di una vera transizione ecologica non ideologica non ci sono i padroni da colpire ma i lavoratori da difendere. Ci sono i posti di lavoro, l’occupazione, il salario da portare a casa ogni mese, l’economia famigliare e la prospettiva futura delle nuove generazioni.

Allora la transizione totalizzante all’elettrico, ammesso che sia la scelta giusta, insieme alla tutela del pianeta, che è uno solo, deve mantenere una condizione economica dignitosa per i lavoratori. Queste due condizioni devono andare di pari passo perché salvare la terra con migliaia di disoccupati o asserviti al reddito di cittadinanza sarebbe il fallimento della transizione ecologica.

Costruire una transizione all’elettrico dell’auto, come se fosse ritenuta colpevole di tutti i mali della società occidentale e Europea in particolare, è un vezzo che i ceti popolari, lavoratori e pensionati, non si possono permettere. Ecco perché ci sono forti perplessità nella scelta del Parlamento europeo di vietare la produzione di auto a combustione fossile dal 2035. Nonostante manchino 13 anni, non siamo pronti. Non siamo pronti solo all’elettrico.

Ad oggi non esiste un progetto compiuto di chi sostiene l’uscita completa dal fossile che dica dove si prenderà l’energia elettrica non derivante da inquinamento per sostenere il sovraccarico di richiesta di consumo di energia elettrica per ricaricare il parco macchine italiano. Ricordo che nel 2020 solo di autovetture è di oltre 39 milioni il parco circolante in Italia. 268 milioni nel 2019 in Europa. Energia che oggi deriva al 52% da combustibili fossili, il 37% da fonti rinnovabili, oltre al 5,8% da biomasse rifiuti industriali.

Immaginando che avremo comitati, di quelli che sono “tutto elettrico” per il no agli inceneritori, no all’ampliamento della dighe idroelettriche, no alle biomasse e ai rifiuti industriali, Cioè no a tutti quelli impianti che possono trasformare con un processo produttivo e industriale o con una modifica del paesaggio nazionale (pale eoliche, campi di pannelli che non sono altro che un’altra tipologia di inquinamento ambientale) mi si può spiegare come produrremo il surplus di energia elettrica necessaria a ricaricare solo il parco macchine italiano nel tempo?

Certo un’idea può essere comprare l’energia necessaria dalle centrali nucleari francesi piuttosto che pensare a sviluppare il nucleare pulito perché nella “testolina” di molti ambientalisti forse c’è l’idea del “purché non nel mio giardino”. Se poi il litio lo estraggono i bambini e il nucleare è francese l’importante è farmi una pedalata. Perché anche qui, l’ambientalismo prevale nei segmenti laddove c’è un lavoro sicuro come liberi professionisti, scuola, statali e enti locali ma dove ci sono i ceti più a rischio mercato (e che molte scelte della sinistra li ha portati a destra) e occupazione, la sinistra non se ne occupa o ha un approccio ideologico. Ovvero la sinistra del ceto medio-alto e garantito. Servirebbe riflettere.

Dire che la filiera dell’auto rischia 70mila posti di lavoro è sicuramente una stima bassa perché nonostante la riconversione industriale della filiera si rischia un impatto sulla capacità di reggere lo sviluppo tecnologico e industriale del Paese, dove a rimetterci saranno i lavoratori più deboli e meno professionalizzati. Ovvero quelli che più facilmente saranno spinti nella fascia dei nuovi poveri. Un dato solo statico per alcuni forse gli stessi che beandosi di due piste ciclabili in via Madama Cristina non vedono le lunghe code ai semafori di cui respirano ampiamente Co2 transitando “felici” in bici.

I contrari alla “biella e pistone” spieghino la possibile dipendenza derivante dalle materie prime presenti nelle batterie a cui sarebbe sottoposta la nostra economia nel diventare un Paese auto-elettrizzato. Passeremo dalla dipendenza araba alla dipendenza cinese o dai suoi Paesi satelliti-africani, dipenderemo dall’Australia o da chi? Ecco perché la transizione ecologica, che non è necessariamente solo elettrico, deve tenere insieme, nella sua tempistica, miglioramento ambientale, sviluppo tecnologico, occupazione, economia.

Allora, come già detto ripetutamente, occorre lavorare su una tempistica che si adegui alla capacità del sistema Paese di sviluppare la ricerca nei quattro punti cardinali delle emissioni da ridurre, nella sua gradualità e pertanto non va trascurato l’ibrido (le auto bifuel che si ricaricano senza spina); l’idrogeno e i biogas, idrogeno e l’elettrico abbinato e anche l’elettrico puro, tutto ciò in un mix che il tempo e le scelte del mercato complessive diranno quali saranno i combustibili più convenienti anche economicamente per l’utenza. Perché questa scelta del “tutto elettrico” dati i costi di ricarica rischia tendenzialmente di essere, e per ora lo è, una scelta di élite.

Non è un caso che da Punch, per arrivare a Torino, e CNHI e Iveco si lavori su più direzioni anche con un’idea di fondo: preservare il motore endotermico cambiando combustile. Questa scelta che può prevedere l’utilizzo di biogas, di idrogeno da soli o abbinato all’elettrico oltre a renderci poco o niente dipendenti dall’estero in materia di consumi energetici, ha un obiettivo molto chiaro: non disperdere il patrimonio di ricerca, innovazione, produzione e occupazione che garantisce la trasformazione del motore endotermico anziché il motore elettrico (da 1000 a 100 particolari si passa). Anzi questa scelta necessità di ampliare la ricerca tecnologica perché occorre abbinare due sistemi propulsivi. Quindi un motore bifuel, meno inquinante e con più occupazione anziché la decrescita (in)felice.

In campo automobilistico ma anche industriale e agricolo, basti pensare all’attuale scelta di Stellantis sui veicoli commerciali leggeri, settore in cui l’Italia ha un grande stabilimento nel centro Italia al trattore a bio metano sviluppato da New Holland.

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