La solitudine delle minoranze

Il compito principale della minoranza politica è quello di controllare l’operato di chi governa: dovere che include pure lo stimolo costruttivo nelle scelte tese a migliorare il bene pubblico.

Purtroppo le riforme che hanno segnato l’ultimo ventennio sono state deleterie per il confronto democratico nelle sale consiliari, così come in quelle parlamentari. Le proposte di modifica costituzionale propagandate dai cosiddetti “Riformatori”, i quali guardano a modelli ante Statuto Albertino e andrebbero piuttosto denominati “Ultra conservatori”, sono state dettate dalla determinata volontà di azzerare ogni potere in capo ai rappresentanti del popolo. Costoro hanno accentrato tutto nelle mani delle giunte e del Presidente del Consiglio, come del resto indicava il famoso “Piano di Rinascita democratica” redatto da Licio Gelli, non lasciando alle opposizioni alcuna speranza di essere ancora incisive nel confronto di aula.

Neppure gli eletti tra le fila delle maggioranze possono condizionare le decisioni di chi sostengono, e le cariche elettive sono state oramai ridotte a ruoli decorativi, utili solamente a poter affermare con orgoglio che in Italia vige un sistema democratico. Chi dalla maggioranza appoggia un sindaco, oppure il premier che occupa Palazzo Chigi, può esprimere al massimo un “Signorsì” nelle occasioni pubbliche, mentre ha invece la facoltà di lamentarsi in quelle private, dovendo fare pure molta attenzione a mantenere sempre il numero legale nelle sale consiliari oppure in Parlamento.

Agli altri politici, coloro che vengono definiti di minoranza, tocca invece ogni giorno fare i conti con un senso di frustrazione crescente, dovuto a un sostanziale senso di inutilità. Presentare atti ispettivi, le cosiddette interpellanze, o battere i pugni sul tavolo per farsi ascoltare, sono momenti che producono un solo grande risultato: l’indifferenza da parte di chi comanda, di chi regge il gioco.

A Torino Sud un gruppo consiliare ha presentato (tra le tante) un’interpellanza diretta a comprendere quali fossero gli orari dedicati al nuoto libero in una delle numerose piscine comunali fatte gestire da privati. Il tema dello sport in Città, o meglio dell’uso delle palestre e delle piscine pubbliche affidate a terzi dal comune, è importante per tante ragioni, tra cui il corretto utilizzo dei beni comuni cittadini dati in concessione, e la necessità di prevenire il disagio sociale anche grazie all’attività fisica.

Alcuni fruitori lamentavano l’impossibilità di accedere all’impianto durante la fascia giornaliera in cui veniva applicata la tariffa comunale di ingresso, un arco temporale ridotto al minimo e collocato in momenti inaccessibili ai più: una situazione pensata evidentemente per privilegiare le attività a pagamento organizzate dal gestore. La replica assessorile ha rimarcato la normalità della situazione descritta nell’atto ispettivo, evidenziando come ad ogni modo dalle ore 10 alle ore 12 i gestori garantissero il nuoto libero con tariffa d’ingresso voluta dalla Città: pretendere qualcosa in più è quindi utopia pura.

La risposta è stata in realtà l’ammissione di un fallimento poiché, senza forse neppure rendersene conto, l’assessorato ha avallato l’anomalia di un paradosso diventato regola. Le strutture pubbliche sono affidate a privati per (si dice) facilitarne il funzionamento, ma da qui deriva l’impossibilità per i cittadini di accedervi, soprattutto per chi ha maggiori difficoltà economiche. I concessionari agiscono come avessero tra le mani un club privato, con tanto di ingresso riservato ai tesserati e dal costo simile a quello applicato da chi ha un impianto in proprietà e attende i clienti per fare profitto.

Inutile scrivere, inutile protestare di fronte a un sistema immobile, dove oramai anche i governi risolvono i problemi della società assegnando contributi, nello stesso modo in cui operano di norma le circoscrizioni. I ministri rinunciano a qualsiasi intervento di carattere strutturale, dedicandosi invece, con profitto, nella privatizzazione di strutture sorte per migliorare le condizioni sociali dei propri cittadini. Aumentano gas, benzina e luce, ma le soluzioni proposte dal ministero competente riguardano indennizzi a cittadini e imprenditori, senza mai valutare se mettere mano alla costruzione di norme anti speculazione nei settori commerciali riguardanti i servizi essenziali.

In questi giorni, alcuni lavoratori impiegati nella raccolta dei pomodori, e posti dai datori in condizioni di sfruttamento spietato, manifestano davanti a Palazzo Chigi (attuando lo sciopero della fame e della sete) per denunciare la loro riduzione in schiavitù. Da anni diversi gruppi di opposizione, appartenenti specialmente alle forze più radicali, indicano vanamente quanto accade in tante realtà produttive agricole. Politici, lasciati a se stessi, hanno denunciato ripetutamente le minacce subite da chi ha la pessima idea di far valere i diritti dei lavoratori nei campi, ma senza mai attrarre l’attenzione di media e premier.

Aboubakar Soumahoro, il coraggioso bracciante a capo dell’ultima azione di sensibilizzazione indirizzata al governo, ha deciso di agire direttamente. E’ consapevole che solamente in questo modo potrà far sentire la sua voce: una voce dissonante in un Paese dove regna l’unanimità e in cui i parlamentari che fanno il proprio dovere dai banchi dell’opposizione, e a volte pure da quelli della maggioranza, si sentono ogni giorno più simili alla carta da parati.

Probabilmente Aboubakar faticherà a raggiungerà il suo obiettivo, però alla fine avrà destato qualche coscienza e aiutato chi sta nelle istituzioni a comprendere come nulla, oltre la lotta, possa fermare l’opera distruttiva dei poteri che giorno dopo giorno, instancabilmente, hanno creato la Repubblica fondata sul pensiero unico, anziché sul Lavoro.

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