SACRO & PROFANO

Conti in ordine e seminari vuoti, vescovi "curatori fallimentari"

Amministratori, impresari edili e agenti immobiliari. Assorbiti da queste incombenze spesso trascurano i compiti pastorali ed episcopali. La crisi dell'Occidente cristiano secondo Enzo Bianchi. E dopo la Messa acquatica quella in bicicletta

Uno dei vescovi piemontesi di origine lombarda – insieme a Giulio Franco Brambilla di Novara ed Egidio Miragoli di Mondovì – è monsignor Luigi Testore di Acqui. Classe 1952, ordinato nel 1977, fu segretario particolare del cardinale Carlo Maria Martini dal 1980 al 1986 per poi assumere una serie impressionante di incarichi nell’amministrazione della diocesi ambrosiana e la presidenza di vari prestigiosi enti milanesi, nonché far parte di diversi consigli e commissioni. La sua reputazione di esperto amministratore lo fece diventare coadiuvante di un altro importante prelato meneghino, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, oggi arcivescovo di Gorizia, nell’incarico di sistemare le dissestate finanze della diocesi di Acqui, guidata allora dal vescovo monsignor Pier Giorgio Micchiardi. Il buon lavoro svolto nella città delle terme fece sì che, nel 2018, papa Francesco nominasse Testori quale successore dell’antico ausiliare del cardinale Giovanni Saldarini. Ad Acqui egli ha completato l’opera e si può dire che la diocesi sia stata economicamente risanata e così, nel 2020, la Cei lo fece assurgere all’importantissimo ruolo di presidente dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero, l’ente che ha il compito di erogare le risorse necessarie a consentire l’integrazione delle remunerazioni dei preti. Oggi la diocesi di Acqui ha un clero anziano e che dà segni di manifesta stanchezza, ma soprattutto ha un solo seminarista e quindi se la cura sui conti è stata efficace, la prognosi sul paziente è infausta.

Stessa situazione dal punto di vista vocazionale si riscontra ad Asti, diocesi guidata dal primo “boariniano” doc elevato all’episcopato e che ha portato con sé in episcopio le suore della venerata madre Anna Bissi. Si tratta del torinese Marco Prastaro, classe 1962, ordinato nel 1988 il quale, dopo un’esperienza pastorale in Kenia, divenne vicario episcopale per la città di Torino. Anche ad Asti vi è un solo aspirante al sacerdozio.

A Cuneo le cose non vanno meglio, con l’aggravante che ogni tanto qualche prete – gravato dagli impegni pastorali e oppresso dal disagio esistenziale – comunica improvvisamente al buon vescovo – gettandolo nello sconforto – la volontà di lasciare il ministero, oppure chiedere un anno sabbatico di riflessione, sempre preludio dell’abbandono. Anche in questo caso, l’opera di monsignor Piero Delbosco, noto già a Torino per la sua sagacia di impresario edile e che a Cuneo si è occupato con intelligenza della razionalizzazione degli immobili diocesani, disegna un futuro fosco. Insomma, per questi vescovi, la definizione – mutuata dai confratelli d’Oltralpe – di «curatori fallimentari», appare quanto mai calzante.

I moderatori della diocesi di Torino hanno avvisato i parroci che arriverà nelle varie zone l’atteso missus dominicus, don Mario Aversano il quale, inizierà a prendere contezza della situazione in vista del processo di ristrutturazione delle parrocchie.

Ascoltando la conferenza di Enzo Bianchi a Mappano, avente per tema il futuro della parrocchia, si ha come l’impressione che, se pure i contenuti del suo verbo restano immutati – saranno le bastonate misericordiose di Bergoglio o l’ingravescentem aetatem – accenti e toni si siano addolciti. Dopo la premessa storica sulle origini della parrocchia, l’ex priore ha detto che essa, come oggi strutturata, non è più all’altezza della situazione, constatandolo egli stesso quando, ogni domenica sente – «come ogni cattolico tridentino» – il richiamo della Messa e da Reaglie scende in qualche chiesa di Torino dove trova poche canizie, uno squallore generale e preti stanchi che spesso lasciano il ministero «non per qualche storia d’amore, ma perché non ce la fanno più», perché esausti, non più riconosciuti nel ruolo. A questo proposito Bianchi ha raccontato che due preti quarantenni pochi giorni prima erano andati da lui ad annunciargli l’abbandono del ministero. Spesso poi le comunità, oltre che anziane, sono divise e nell’affermazione per cui «una comunità cristiana e ogni parrocchia o è fraternità, oppure è qualcos’altro», sembrerebbe di cogliere qualche riferimento alle vicende di Bose. Sono i risultati di una grande crisi della fede in Occidente, specificando però che l’Oriente cristiano è «un’altra cosa» perché le loro culture «non sono contemporanee alle nostre» in quanto sarebbero rimaste impermeabili all’illuminismo e alla Rivoluzione francese. Qualche segno di speranza, secondo Bianchi, viene dalla Francia che anticipa sempre il nostro Paese, dove è avvenuta la «esculturazione» del cattolicesimo (Danièle Hervieu-Léger) si è preso atto cioè che esso «è uscito dalla cultura» ed è diventato del tutto marginale. Ma se le parrocchie sono disertate dai francesi non lo sarebbero i monasteri dove invece, egli dice, i cristiani trovano un luogo ospitale e una liturgia bella.

Le nostre parrocchie, che oggi fanno sempre più fatica a dare le ragioni della fede, dovranno allora concentrarsi su tre cose: Vangelo, Eucaristia, Fraternità, «il resto sarà lasciato, molte parrocchie abbandonate e molte chiese vendute», come in Francia, Olanda e Belgio. Si dovrà «leggere il Vangelo in modo diverso» chiamando a collaborare i laici anche affidando ad essi, e soprattutto alle donne, le omelie domenicali, cosa che lui faceva già a Bose («anche se c’è un divieto non me ne importava nulla»), consultando i non credenti, rendendosi conto che i cristiani saranno sempre più un «nucleo minoritario». Circa l’ordinazione delle donne Enzo Bianchi – pur favorevolissimo – ne ha prospettato alcuni inconvenienti, come in Svizzera, dove chi studia da pastore riformato sono ormai solo più le donne perché si ritiene che tale ufficio rientri nella cura e nell’educazione della persona, un po’ come avviene nella scuola. Infine, un riferimento autobiografico, un amarcord un po' melanconico. Bianchi ha ricordato come alla fine degli Anni Cinquanta, quand’era studente universitario e «devoto cattolico tridentino», percorreva ogni mattina, tutta intera, la via Garibaldi e adiacenze fermandosi in una delle sue belle chiese per la Messa: SS. Trinità, S. Dalmazzo, Misericordia, S. Rocco, S. Francesco d’Assisi e i SS. Martiri dove i fedeli affollavano i confessionali e le dotte prediche dei padri gesuiti. Oggi l’ha ripercorsa e tutte sono desolatamente chiuse e anche se fossero aperte non vi sarebbe nessuno se non qualche turista. Una immagine eloquente e triste del cattolicesimo, non solo torinese, dove i cristiani saranno sempre più un pusillus grex (Lc 12,32).

Il Santo Padre ha ricevuto gli industriali e, fra le sue varie ed importanti enunciazioni, ha detto: «Oggi fare figli è una questione io direi patriottica, anche per portare avanti il Paese». Sì, proprio così, una «questione patriottica». Naturalmente, questo passo del discorso papale, che pure ha avuto ampio spazio su tutti i media, è passato sotto silenzio. D’altro canto, che la caduta demografica rappresenti il più grande pericolo per il futuro, soprattutto economico dell’Occidente, lo riconoscono ormai in molti, ma usare la parola patriottico ha sconcertato non poco gli aedi papali e perciò è stata censurata. Immaginiamo, se l’avesse usata il leader – magari donna – di qualche partito di destra, cosa sarebbe successo? Già si possono intravvedere i titoli evocanti Mussolini e i famigerati premi alle madri con più figli. Qualcuno ha colto, nelle parole di Bergoglio, un innato omaggio al generale Juan Domingo Peron che, ancora negli Anni Settanta, aveva parole di ammirazione per il regime del duce, senza però mai rinnegare gli stretti rapporti di collaborazione e di stima che ebbe con il comandante Ernesto Che Guevara.

All’assemblea generale del cammino sinodale tedesco è avvenuto qualcosa di imprevisto. Il testo Vivere l’amore nella sessualità e nella coppia che apre sul tema inediti scenari, non ha infatti raggiunto la necessaria approvazione da parte dei 2/3 dei vescovi. Il fatto è stato stigmatizzato dall’ala progressista, indignata dall’inatteso risultato. Alcuni delegati hanno abbandonato l’assemblea per protesta, eppure si è trattato dell’esercizio di una pratica che spesso i nostri cattolici adulti, quando vogliono comandare, dimenticano e che si chiama democrazia. Per loro, infatti, i «cammini sinodali» funzionano solo quando vanno nella direzione da essi auspicata.

La venerata lettera apostolica Desiderio desideravi di papa Francesco sulla liturgia non cessa di produrre copiosi frutti. Dopo la Missa Acquatica, adesso è la volta della Messa “alla Grande Fratello” di don Fabio Corazzina, sessantenne parroco di Fiumicello nella diocesi di Brescia il quale, vestito da ciclista e con l’immancabile stoletta arcobaleno, ha celebrato – si fa ovviamente per dire – su un tavolo da sagra paesana con la bicicletta a fare da paliotto, con vasi sacri di plastica e con il corporale – anche qui si fa per dire –  sostenuto da frutti di stagione, tanto che le particole consacrate sono volate via, raccolte poi da un fedele. Naturalmente nessun messale, in ossequio a quell’ars celebrandi tanto cara e auspicata dai liturgisti. Rileggendo la  costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, ci si potrebbe chiedere come, da quegli altissimi principi, si sia potuto giungere a tale abominio liturgico, al punto che qualsiasi rito di qualunque confessione riformata – lasciamo stare gli ortodossi che mai rinunceranno allo splendore della loro liturgia – sia da preferire, quanto ai minimi della dignità e del decoro, alle profanazioni di quella che papa Francesco ha stabilito essere «l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano».

Le spiegazioni sono molteplici e plausibili, ma hanno anche la loro radice, non in una teoria, quanto in quel metodo che monsignor Annibale Bugnini, grande regista della riforma liturgica, manovratore abilissimo del Consilium per la sua attuazione seppe far passare e diventare teoria e prassi comune. «Bisogna che camminiamo con prudenza e discrezione. Le innovazioni devono essere proposte in modo accettabile e, a mio avviso, in termini tali che si possa dire molto senza che appaia tale; che molto risulti in germe soltanto e che una porta sia sempre lasciata aperta a deduzioni e applicazioni postconciliari legittime e possibili; che non si sentano troppo la novità».

Alcuni però avevano capito il gioco e quando nel 1967 la struttura della “Messa normativa” – cioè quella attuale – fu presentata al Sinodo dei vescovi per il proprio parere consultivo, si ebbe il seguente esito: 73 placet, 43 non placet, 62 iuxta modum, 4 astensioni. Un risultato non proprio esaltante e che avrebbe dovuto indurre il papa, come fece in molte altre occasioni, a rivedere lo schema. Non ci fu nulla da fare, anche questa volta monsignor Bugnini ebbe la meglio e nel 1969 la Messa normativa fu promulgata da Paolo VI il quale però nel 1976 allontanò l’autore della riforma liturgica inviandolo nunzio in Iran, si disse per la sua presunta affiliazione alla massoneria o, molto più verosimilmente, perché il pontefice si rese conto di essere stato tradito nella fiducia in lui riposta. Adesso l’anello episcopale di Bugnini adorna il dito indice di monsignor Vittorio Viola, segretario del dicastero per il culto divino.

L’immarcescibile Giampiero Leo continua a stare – e meritoriamente – in campo. In un’intervista al settimanale diocesano La Voce e il Tempo, il politico torinese ritorna sul dovere delle comunità cristiane di sostenere chi scende nell’agone pubblico, richiamando la dottrina sociale della Chiesa che deve essere studiata e fatta conoscere meglio. Forse però l’ex assessore non è al corrente che – per dirla con un bisticcio di parole – tale dottrina non è più corrente nella Chiesa in quanto la maggioranza dei teologi la ritiene infondata o comunque inadeguata, in ogni caso sospetta, proprio perché si presenta come dottrina. Per alcuni la pastorale sociale presuppone che la Chiesa abbia qualcosa da dare al mondo, qualcosa che non può darsi da solo. Prevale oggi invece un pastoralismo privo di dottrina, il quale dimentica che la Dottrina sociale della Chiesa è un corpus dottrinale e dà vita a un autentico sapere, che entra poi in dialogo con gli altri saperi che riguardano la società e la politica. Una pastorale sociale staccata dalla dottrina impedisce di fatto la coerenza tra la fede e l’impegno sociale e politico, al punto che oggi molti nella Chiesa sostengono che sia possibile essere cattolici e, per esempio, essere a favore dell’aborto. E si potrebbe continuare. Persino molti vescovi la pensano in questo modo, ma del resto già così la pensavano, fin dagli Anni Sessanta, teologi come Karl Rahner e Walter Kasper.

Un esempio? Leo cita l’iniziativa della pastorale sociale e del lavoro della diocesi delle “Piccole Officine Politiche” in cui si vogliono formare i cristiani all’impegno politico. Il suo programma è oltremodo interessante ma più che una scuola sembra una serie di conferenze con vari relatori dove – a quanto appare – di Dottrina sociale della Chiesa non si parla. Il pastoralismo è il desiderio di incontrare l’altro nelle concrete situazioni di vita e a questo incontro subordina le questioni dottrinali. È la versione cattolica della prevalenza della prassi sulla teoria, o dell’esistenza sul pensiero ed è certamente mossa da un’ansia pastorale, priva però di annuncio. Ci si limita a incontrare l’altro senza pretese di orientamento o di guida che deriverebbero da una interpretazione ideologica della dottrina. Alle spalle del pastoralismo c’è la visione teologica secondo la quale Dio non si può mettere a tema, si vede solo l’uomo ed è in questo incontro nell’esistenza che veniamo a sapere qualcosa di Dio. Non quindi per via dottrinale, ma per via pratica ed esistenziale. Per il pastoralismo la dottrina impedisce l’incontro e allora la cosa più importante da fare è collocarsi nel mondo senza evangelizzarlo, ma accompagnandolo, condividendone i problemi. La Rivelazione di Dio non è metafisica, ma storica ed esistenziale.

Un gentile critico di queste note ha scritto che esse contengono «sempre un giudizio, sempre una critica», mentre servirebbero comunione e ricerca del positivo. Ha ragione. Don Luigi Giussani iniziava il suo Senso Religioso, con una importante affermazione: «Cominciamo a giudicare, è l’inizio della liberazione». Per 60 anni il suo movimento, che non a caso si chiama Comunione e Liberazione, ha fatto proprio questo, perché don Giussani, di cui ricorre il centenario della nascita, aveva capito che un’esperienza di fede che non giudica la realtà non interessa, in fondo, a nessuno e se essa non accende i cuori e se non mobilita le menti avrà inevitabilmente una data di scadenza, come l’avranno le  diocesi dei «curatori fallimentari» che, badano ai conti, non giudicano mai niente e nessuno, se non gli «indietristi». La riprova è che oggi Comunione e Liberazione – diventata una brutta copia dell’Azione Cattolica degli Anni Settanta – non interessa più a nessuno. «È per un giudizio che sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9,39).

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