SACRO & PROFANO

Simbolo della Chiesa "indietrista", è partita la caccia ai chierichetti

I giovani accoliti non sono visti di buon occhio dai liturgisti modernisti. il "cristiano del dissenso" Peyretti conquista la prima pagina del settimanale diocesano. La diocesi di Biella e il poco decisionista Farinella. Lo stato desolante della Consolata

Uno dei segni di vitalità della Chiesa e di una efficace pastorale rivolta ai fanciulli era la presenza dei chierichetti attorno all’altare. Stuoli di ragazzi avevano così modo di accostarsi alla liturgia cristiana e di apprendere ad amarla. Oggi, essi sembrano quasi scomparsi rendendo più visibile la canizie dei fedeli e le assemblee ancor più fredde. La causa, naturalmente, viene addebitata alla secolarizzazione e alla «fine della cristianità». Pochi però sanno che la presenza di giovani accoliti – la parola chierichetti è ritenuta troppo clericale – non è vista di buon occhio da certi liturgisti, secondo i quali non costituirebbe un germoglio in quanto indice di una visione «indietrista». Così gli occhiuti emissari di S. Lorenzo se vedono in qualche parrocchia che ancora ci sono i chierichetti – magari in talare e cotta – si insospettiscono immediatamente. In una parrocchia della cintura torinese, dove i fiorenti gruppi giovanili che animavano – persino con il gregoriano! – le celebrazioni, sono stati decimati dal nuovo parroco modernista in quanto in odore di «indietrismo». Il diacono – sempre un po’ meno astuto del superiore – a coloro che chiedevano conto della sparizione dei chierichetti, ha confessato candidamente che erano stati allontanati «in quanto (sic) tradizionalisti». Meglio pochi anziani buoni che molti giovani passatisti, anche se inconsapevoli. D’altro canto, l’arcivescovo di Trento, monsignor Lauro Tisi, ha auspicato in questi giorni che «la Chiesa del futuro sia aperta agli atei». Naturalmente anziani. Non sia mai che i giovani atei – magari vedendo i chierichetti – diventino tradizionalisti e, di conseguenza, acquistino o ritrovino la fede.

La Voce e il Tempo ha assegnato questa settimana la prima pagina a Enrico Peyretti, figura ormai storica, se pure un tantino sbiadita, della diocesi. Classe 1935, ex sacerdote, esponente del cosiddetto “cristianesimo di base” stile Anni Settanta, egli è ormai l’unico vivente dei fondatori de Il foglio – anch’esso ormai un vero reperto storico – il mensile nato nel 1971 per dare voce all’area dei “cattolici del dissenso” i quali – anche se non si dice, ma Enzo Bianchi lo ha scritto – diedero tante angustie al cardinale Michele Pellegrino fino a portarlo alle dimissioni. Insomma, autentici “germogli”. Peyretti tenta di rileggere la modernità con la lente d’ingrandimento del pensiero debole: le chiese che sanno «di vecchio» e sono perlopiù «monumenti del passato», gli abiti liturgici «strani e teatrali», specchio di una «Chiesa di ieri» che viveva di «conformismi insinceri», preti che negli oratori prima del gioco fanno purtroppo ancora pregare i ragazzi, mentre invece la Chiesa oggi è viva in «associazioni e movimenti di scopo trans-territoriali» e dove si pratica l’«ospitalità eucaristica» e cioè l’intercomunione con i protestanti. Per il nostro “germoglio” la Chiesa cattolica deve sempre e continuamente scusarsi di esistere e di essere esistita nei secoli in attesa di sciogliersi nel mondo.

Il governo della diocesi di Biella si sta qualificando, sotto la guida del suo vescovo, l’eporediese monsignor Roberto Farinella, come una Chiesa sufficientemente insignificante. La sua nomina ebbe come patroni in primis – ça va sans dire – l’immarcescibile arcivescovo Arrigo Miglio, il potente monsignor Gabriele Mana e monsignor Luciano Pacomio che avrebbe voluto il suo antico allievo dell’Almo Collegio Capranica come successore a Mondovì. Buono, pio, devoto e anche colto, le sue pur apprezzabili omelie pullulano di ringraziamenti e ricordano il prete logorroico di Viaggi di nozze interpretato da Carlo Verdone. Ciò che palesemente gli difetta è la governance e il decisionismo, qualità che per un vescovo non sono affare da poco. Forse pensavano a lui gli autori de Lo scisma sommerso quando tracciavano un quadro – per la verità non inverosimile – dell’episcopato piemontese in cui: «Prevale la mediocrità. Nella maggior parte dei casi merge una profonda inadeguatezza per il proprio ruolo e una generale incapacità di rendersene conto. Manca drammaticamente il talento di leggere con oggettività la realtà e sé stessi e questo è un disastro per la vita pastorale di una diocesi, del popolo di Dio tutto e del presbiterio abbandonato a sé stesso».

Inevitabile allora che a governare siano i pupilli di monsignor Mana – «il buon Gabriele» – che da fuori diocesi, dove ha avuto il buon senso di trasferirsi, continua a essere l’ombra magna della diocesi. Sotto il suo governo, alcuni sacerdoti decisero di abbandonare il ministero, altri la diocesi e altri ancora questo esilio terreno: un’eredità pesante del suo predecessore, monsignor Massimo Giustetti – che si faceva chiamare pellegrinianamente “padre” – e che in questi giorni viene ricordato solennemente in cattedrale dauno dei suoi pupilli, l’attuale vescovo di Casale Monferrato, monsignor Gianni Sacchi, su cui diremo.  Nella cabina di regia della diocesi di Biella si segnalano il vicario generale Paolo Boffa, il canonico Filippo Nelva, il canonico Michele Berchi, rettore di Oropa e organizzatore al santuario della famosa “mostra dei mostri”, per non parlare dell’eminenza grigia, il canonico Stefano Vaudano. Pare serpeggi in diocesi la cattiva abitudine di mettere mano all’aratro e poi di volgersi indietro, in particolare da parte di chi ha intrapreso studi teologici o musicali, ragion per cui molti dicono di “aver studiato” ma pochi possono dire di “aver concluso”. Monsignor Farinella ha però un’attenuante: risiede in diocesi il biellese monsignor Alceste Catella, ancor più influente di Mana. Con due “suocere” simili, non è affatto facile guidare la diocesi. Ne sa qualcosa, oltre la Serra, il vescovo di Ivrea monsignor Edoardo Cerrato che di “suocere” ( Bettazzi, Miglio, Bertello, De Bernardi) – tutte di peso – ne ha una scolta.

Ultimamente, quello che era il cuore pulsante della Chiesa torinese – il Santuario della Consolata – versa in uno stato di semi-desertificazione. Se pure vi fervono lavori, è più di un’impressione che la vita spirituale e la devozione dei fedeli abbiano abbandonato la Casa della Patrona della diocesi. In un tempo non lontano, chi veniva alla Consolata trovava sempre in confessionale, ad ogni ora della giornata, santi e dotti sacerdoti, il cui ricordo è nella memoria e in benedizione di ancora tanti torinesi. Ora tutto appare desolato. Si vede che i preti residenti al Convitto – conosciuto come il Sinedrio – hanno cose più importanti da fare, come partecipare a convegni e riunioni, oppure animare gruppi di “cristiani adulti”. Le pie donne – notoriamente non “adulte” – possono attendere o recarsi altrove, come infatti avviene. Forse, a compiere l’opera di smantellamento del Santuario e la sua riduzione a museo, si potrebbe pensare a un rettore più convintamente modernista.

Sta avanzando la fase romana della causa di beatificazione del Servo di Dio Dom Hélder Pessoa Câmara (1909-1999), sacerdote dal 1931, vescovo dal 1952, poi arcivescovo di Olinda e Recife, precursore della Teologia della liberazione ma soprattutto vera icona – la sinistra, anche quella ecclesiale, vive di icone – del cattolicesimo progressista. Ora, se pure sono stati molti gli ecclesiastici simpatizzanti e anche aderenti di movimenti dichiaratamente fascisti, nessuno di essi – a quanto risulta – ne fu mai capo o esponente di spicco. Don Helder invece – caso unico al mondo- negli Anni Trenta e già sacerdote, non solo fu attivista dell’Azione Integralista Brasiliana (Aib) di Plinio Salgado (1895-1975), movimento che era «l’equivalente brasiliano del fascismo», ma addirittura ne divenne segretario generale. Ma c’è un aspetto – anch’esso poco conosciuto e ancora più inquietante – che grava sulla figura di Dom Helder. Durante il Concilio Vaticano II, anche se non prese mai la parola, la sua influenza fu notevole e si esercitò attraverso una associazione segreta la “Opus Angeli” il cui capo era il teologo austriaco Ivan Illich (1926-2002). Dopo il Concilio, monsignor Camara dissentì apertamente dall’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI promulgata nel 1968 ed ebbe una aperta simpatia per la massoneria. Probabilmente, se ne intendeva.

A proposito di associazioni segrete, è stato finalmente pubblicato in italiano il libro di Julia Meloni La Mafia di San Gallo (edizioni Fede e Cultura) che risulta fondamentale per comprendere le oscure dinamiche che agitano la Chiesa e, ad esempio, cosa c’è dietro il sinodo sulla sinodalità. Nella città svizzera si riunì a partire dal 1996 una potente lobby della quale facevano parte alcune delle personalità più influenti della gerarchia cattolica: i cardinali Carlo Maria Martini, Achille Silvestrini, Walter Kasper, Karl Lehmann, Godfried Danneels (che coniò egli stesso per il gruppo il nome di St. Gallen Mafia), Cormac Murphy-O'Connor, tutti dichiaratamente progressisti e fermamente intenzionati a determinare l’elezione di un pontefice che attuasse un programma di «modernizzazione» della Chiesa. Il piano prevedeva l’elezione al Soglio di Martini che però rifiutò a causa delle sue precarie condizioni di salute; i cospiratori si posizionarono allora su Jorge Mario Bergoglio al quale però – in base alle informazioni che gli giungevano dalla stessa compagnia di Gesù – si oppose lo stesso Martini che fece convergere i suoi voti su Joseph Ratzinger, sicuri di poterlo poi condizionare e logorare, come di fatto avvenne. Nel 2013, l’operazione, guidata dal cardinale Kasper riuscì perfettamente e pochi giorni dopo la sua elezione papa Francesco citò, non a caso, lo stesso Kasper come uno dei suoi teologi preferiti, assegnandogli il compito di aprire il concistoro straordinario sulla famiglia nel febbraio 2014.

Non passa giorno che il papa non rilasci un’intervista dove, solitamente, ripete le stesse cose in quanto le domande ammesse sono sempre le solite ed è noto come egli non gradisca rispondere a quelle scomode. Eppure, in quella concessa il 22 novembre ai giornalisti della rivista gesuitica America, oltre alle frecciatine ai vescovi americani colpevoli di non essere pedissequamente allineati a Roma, si è espresso – nel silenzio generale dei media italiani – su alcune questioni scottanti. Deludendo qualche teologa in voga, Francesco ha sbarrato le porte, in modo inequivocabile, al sacerdozio femminile. Invece, sull’aborto ha fatto – senza arrivare alle conclusioni di monsignor Bettazzi – una distinzione tra essere umano e persona mettendo in dubbio quanto da sempre espresso dal Magistero – vedasi Evangelium vitae n. 60 – secondo cui laddove abbiamo un essere umano – sia pure delle dimensioni di uno zigote – abbiamo una persona. L’intervento più interessante è stato però sulle conferenze episcopali: «La Conferenza episcopale non è il pastore, il pastore è il vescovo. Così si corre il rischio di sminuire l’autorità del vescovo non dissolviamo la potestà episcopale riducendola alla potestà della conferenza episcopale. Perché lì lottano le tendenze e in qualche modo non c’è una responsabilità in carne e ossa come quella del vescovo con il suo popolo, pastore col suo popolo. Gesù non ha creato la conferenza episcopale, Gesù ha creato i vescovi e ogni vescovo è il pastore del suo popolo».

Francesco non ha parlato invece del commissariamento della Caritas Internationalis dove prima del cardinale Luis Antonio Tagle – caduto in disgrazia – fu alla guida per anni il suo amico e grande elettore, il chiacchierato cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga il quale, ben più del primo, dovrebbe portare le responsabilità per le cause che hanno determinato il grave provvedimento. Intanto, si è improvvisamente dimesso – «per motivi personali», il potentissimo prefetto della segreteria per l’Economia, il gesuita padre Juan Antonio Guerrero e al suo posto il papa ha nominato un laico, l’attuale segretario generale Maximino Caballero Ledo. Il fatto si presta a due commenti. La Segreteria dell’Economia è diventata il maggior centro di potere in Vaticano surclassando di gran lunga la Segreteria di Stato. Sono sempre più numerosi i laici a prendere il posto dei chierici nel governo della Santa Sede, soprattutto in campo gestionale. Uno di questi, è l’influentissimo Fabio Gasperini che ha sostituito in qualità segretario dell’Apsa (la cassaforte della Santa Sede) il torinese monsignor Mauro Rivella, tornato a fare il parroco di S. Rita e da poco diventato Economo diocesano. Dall’universale al particolare.

A proposito di Caritas. Sembra che quella torinese – senza che se ne conoscano i motivi – sia da tempo sotto osservazione da parte dei superiori. Cambiamenti in vista?

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