SACRO & PROFANO

La Messa va bene in piemontese, purchè non sia nell'odiato latino

Sdoganata la celebrazione in vernacolo mentre continua l'ostracismo al Vetus Ordo. Chissà che direbbe il compianto don Occhiena? Il realismo di mons. Giraudo e la posizione sull'aborto di suor Galli. A Vercelli si dimette il rettore del seminario

Domenica scorsa ha avuto luogo in duomo l’ordinazione episcopale di monsignor Alessandro Giraudo, vescovo titolare di Castra Severiana e ausiliare di Torino, presieduta dall’arcivescovo Roberto Repole con la presenza di 26 vescovi consacranti – tra i quali il cardinale Francesco Coccopalmerio – e 150 preti e 35 diaconi. La celebrazione è stata, rispetto a quella dell’ordinazione dell’arcivescovo avvenuta all’aperto, molto più solenne e raccolta. Per la prima volta la bolla papale di nomina è stata letta da una cancelliera. L’omelia dell’arcivescovo è stata generalmente apprezzata ma non è sfuggito un passo che è parso ai più variamente interpretabile, quasi come un messaggio subliminale o un avviso ai naviganti: «Caro Sandro, io ti sono fratello. E troverai sempre in me un fratello che ti vuole bene. Ma qui hai tanti fratelli: i vescovi, i preti di questa Chiesa, i diaconi. Hai tante sorelle e tanti fratelli che sono qui e altri che non ci sono ma sono presenti in altro modo. Che tu possa esercitare tutto il potere che oggi ti viene conferito, di arginare ciò che nella Chiesa va contro la fraternità, di far crescere la fraternità in Cristo, perché questo noi siamo».

Abituati da sempre a sentirci dire che l’episcopato è un servizio, il munus regendi, e che si deve uscire dalle logiche di potere, questo sostantivo ha perso molto della sua semantica e per questo ha stupito che sia stato usato. Esiste dunque qualche eccezione al “pensiero umile”? E quali sarebbero quelle situazioni o coloro che nella Chiesa andrebbero arginati mediante il potere del vescovo? La prima intervista da vescovo ausiliare è comunque improntata al realismo e alla domanda su come egli immagini la Chiesa torinese fra vent’anni, monsignor Giraudo risponde che non lo sa: «Certo, non dobbiamo più perdere tempo. Nel passato un po’ di tempo è stato perso nelle Chiese occidentali, la riflessione sul cambiamento è stata rinviata, pensando “fra dieci anni si vedrà, tra vent’anni…”. Ora ci siamo. Le sfide sono sotto gli occhi di tutti: la mancanza di preti, la povertà del laicato, la fatica della testimonianza della vita consacrata. E allora partiamo da questo presente e cerchiamo di viverlo con genuinità evangelica».

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Dunque, suor Giuliana Galli, la virgo veneranda della Torino che conta, dopo aver chiesto il parere di «un grande moralista» – chi sarà mai che non possa essere nominato, forse un ottuagenario prete teologo novarese noto per le sue posizioni all’avanguardia? – ci ha finalmente detto che «l’aborto è l’unico bene possibile» e la coscienza individuale, che secondo Kant è autonoma e legge a sé stessa e rende l’uomo libero e «la donna liberata dico io», l’unico giudice. Evidentemente, il «grande moralista» e suor Giuliana non hanno mai letto né Veritatis SplendorFides et Ratio di S. Giovanni Paolo II. Ci attendevamo una presa di posizione o una smentita da parte della religiosa o della sua Congregazione, ma finora – come c’era da aspettarsi – tutto tace. L’episodio è rivelatore – come già avvenuto con Amoris Laetitia – dell’abbandono da parte progressista del principio tradizionale degli intrinsece malum e cioè di quelle azioni la cui connotazione morale, indipendentemente dalle intenzioni e dalle circostanze, in nessun caso potrà mai diventare da negativa a positiva. Siamo cioè alla vittoria della cosiddetta «morale della situazione», che già Pio XII aveva condannato fin dal 1952. Nella presa di posizione di suor Giuliana – che, come hanno titolato alcuni giornali, «dice sì all’aborto» – avrà forse avuto un peso la sua frequentazione degli ambienti della finanza notoriamente dediti alla coltivazione della morale kantiana? Da ingenui retrogradi ci viene in mente quello che disse in schietto piemontese un’anziana clarissa di fronte alla boriosa eloquenza di una sua consorella: A l’è mal marià al Signur…

A proposito di sconfitta culturale, l’episodio dovrebbe dire qualcosa anche all’inclito Giorgio Merlo il quale, su La Voce e il Tempo, continua con le sue estenuanti lamentazioni venate di nostalgia – ma comunque argomentate e fondate – sulla marginalità e la subalternità dei Popolari in politica che la sinistra considera ormai come «un soggetto ornamentale, periferico o, peggio ancora testimoniale». E sì caro onorevole, perché se nemmeno più le suore del Cottolengo conservano il senso della sacralità e dell’indisponibilità della vita umana, davvero il cattolicesimo ha culturalmente perso e la profezia di Gramsci sul suicidio dei cattolici democratici si è pienamente avverata. Questo pericolo, uomini come Carlo Donat-Cattin o il conte Edoardo Calleri di Sala – pur diversi e contrapposti – lo avevano ben chiaro.

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In tema di seminari e di seminaristi l’arcidiocesi di Vercelli detiene un primato grottesco: due a Novara, uno a Torino, uno a Pianezza, uno a casa sua e uno che nel frattempo svolge la sua professione di medico. Il rettore di quello che fu il glorioso seminario eusebiano si è dimesso al pari del vicario generale ormai emerito, quando ha capito di essere passato da essere «il miglior prete dell’arcidiocesi» a quello di scomodo testimone del fallimento vocazionale, e questo dopo aver discettato per anni in convegni e incontri su S. Eusebio e il suo cenobio. Prenderà qualche provvedimento la virgo potens?

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Torna la Messa in piemontese ed è un segno che i tempi sono veramente cambiati. A celebrarla con una pronuncia perfetta, ma con una certa inflessione della Granda, è stato nientemeno che monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo in occasione della Giornata Nazionale del Ringraziamento, indetta tutti gli anni dalla Cei per rendere grazie a Dio per i doni della terra. Solo i preti più anziani ricordano chi fu don Mario Occhiena (1915-1992), una figura sulla quale, al pari di altre, è calato non soltanto l’oblio del tempo ma anche la scure della damnatio memoriae, quella che il progressismo di ogni genere – ma quello clericale in particolare – riserva a chi non è allineato. Prete filosofo, prolifico scrittore, europeista convinto, fu uno dei più stretti collaboratori di padre Riccardo Lombardi (1908-1979) “il microfono di Dio”, fondò a Torino la congregazione delle suore adoratrici del Santo Volto e fu animatore del “Centro Europa” che pubblicò per anni un vivace bollettino intitolato appunto Europa.

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Don Occhiena fu insomma per i suoi tempi un prete di notevole spessore ma ebbe il difetto di non tacere e di dire e scrivere chiaramente quello che molti suoi confratelli pensavano, ma non osavano esprimere durante l’episcopato di Michele Pellegrino, collocandosi fra quei pochi che formarono la “resistenza” alla narrazione corrente ed è proprio per questo che è stato dannato. In suo scritto egli racconta come accompagnò dall’arcivescovo un gruppo di fedeli che chiedevano l’autorizzazione per la celebrazione di una Messa in piemontese promossa dalla Companìa dij Brandé e come furono messi nemmeno troppo educatamente alla porta. Sulla Messa in vernacolo sembrerebbe dunque caduto l’ostracismo mentre continua con la Messa in latino, la lingua communis Ecclesiae, quella che Sacrosanctum Concilium imponeva fosse conservata nei riti latini e che Paolo VI raccomandava fosse celebrata almeno ogni domenica in ogni cattedrale, naturalmente rigorosamente secondo il Novus Ordo. Tale norma, ispirata al dettato conciliare e al buon senso, avrebbe sicuramente spento o smorzate molte rivendicazione ispirate alla semplice nostalgia ed evitato astiose contrapposizioni. Di fronte all’ideologismo dei liturgofrenici però, ora come allora, non valet argumetum. Famosa è la battuta, attribuita all’allora cardinale Joseph Ratzinger, secondo cui la differenza tra un liturgista e un terrorista è che con il secondo si può trattare…

Il più acuto e influente di essi, il laico Andrea Grillo, maestro di tutti i liturgisti italiani, avversario implacabile di Summorum Pontificum, ha rilasciato un’intervista in cui, rovesciando ovviamente tutta una serie di contumelie contro Benedetto XVI del quale, a suo parere, non resterà quasi nulla, ha avuto il coraggio di fare questa stupefacente affermazione su papa Francesco: «Molto ha fatto per una ripresa della “medicina della misericordia”, anche se deve combattere contro numerose forme di resistenza interna ed esterna, ma deve anche lottare contro forme espressive ed esperienziali che appaiono “costitutive” della tradizione cattolica. Ad esempio la visione del ministero ordinato…». C’è da trasecolare. Consigliamo al teologo di Savona un colloquio riservato con coloro che  – e sono ormai legioni, soprattutto  progressisti – quella medicina misericordiosa l’hanno  dovuta mandare giù. Cominciando magari da Enzo Bianchi o da qualche prelato torinese che ha conosciuto bene il cerchio magico di S. Marta…

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Lo stato di lacerazione della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Sta per uscire il libro del cardinale Gerhard Ludwig Mueller In Buona Fede. La religione del XX secolo dove, intervistato dalla vaticanista Franca Giansoldati del Messaggero, descrive lo stato attuale della Chiesa analizzando i punti critici del papato di Francesco che ha prodotto una polarizzazione senza precedenti alimentata da una parte dalla richiesta di riforme radicali (il sacerdozio alle donne, la benedizione delle coppie omosessuali, le elezioni dirette dei vescovi, l’abolizione del celibato sacerdotale) e, dal lato opposto, da un irrigidimento sempre più esteso e privo di sfumature. Vi sono poi quelli che spiegano come il papa non tocca la dottrina ma solo la pastorale. A tal proposito lo storico della Chiesa Alberto Melloni – non certo ascrivibile al fronte conservatore – ha osservato come così facendo si offende in un colpo solo la dottrina («che non è un monolite, ma una gerarchia di verità»), la pastorale («che è un aggettivo del modo d’essere di Gesù e non il marketing del sacro per allocchi») e nello stesso tempo il successore di Pietro («che è maestro della fede e non una guardia giurata davanti a un caveau»). Anche dal lato dei conservatori la situazione si presta a varie valutazioni. Come ha scritto The Wanderer prima dell’uscita del libro di monsignor Georg Gänswein: «Non è una fazione compatta, non ha un capo ed è composta da una moltitudine di tribù sospettose l’una dell’altra, incapaci di distinguere tra ciò che è importante e ciò che è marginale ma capaci della massima goffaggine pur di trionfare in una disputa sulle questioni più insolite e trascurabili».

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Papa Francesco ha ricevuto venerdì i partecipanti ad un corso organizzato dal Pontificio Istituto Liturgico di Sant’Anselmo e, fra gli altri temi, ha trattato del silenzio: «E infine vi esorto al silenzio. In quest’epoca si parla, si parla… Silenzio. Specialmente prima delle celebrazioni – un momento che a volte si prende come un incontro sociale, si parla: “Ah come stai? Come vai, come non vai?” –, il silenzio aiuta l’assemblea e i concelebranti a concentrarsi si ciò che si va a compiere. Spesso le sacrestie sono rumorose prima e dopo le celebrazioni, ma il silenzio apre e prepara al mistero; è il silenzio che ti prepara al mistero, permette l’assimilazione, lascia risuonare l’eco della Parola ascoltata. È bella la fraternità, è bello il salutarsi, ma è l’incontro con Gesù che dà senso al nostro incontrarci, al nostro ritrovarci. Dobbiamo riscoprire e valorizzare il silenzio!». Esortazione utile e quanto mai necessaria quella del papa, se non fosse che ci si dovrebbe domandare perché le nostre chiese sono diventate dei mercati, prima e dopo la Messa, e a volte anche durante. Liturgisti e teologi da decenni ci hanno spiegato e teorizzato che non esiste nessun tempio sacro o Casa del Signore ma soltanto una «casa fra le case», dove l’assemblea si ritrova per fare memoria di un banchetto d’addio. Non si capisce allora perché – se in quella casa non vi è alcuna Presenza, meno che mai reale – bisogna tacere e non si può tranquillamente chiacchierare del più o del meno. Quanto ai preti sono ormai un lontano ricordo quelle preghiere – molto belle peraltro – che si pronunciavano da parte del celebrante ante et post Missam, o la dura reprimenda di S. Giovanni XXIII rivolta ai fedeli che in chiesa applaudivano. Un prete di Biella ci diceva che quando il vescovo monsignor Carlo Rossi (1890-1980) – illustre liturgista – faceva ingresso in sacrestia per indossare i paramenti cessava immediatamente il brusio e calava il silenzio. Dopo di lui, quando entra il vescovo è come se arrivasse il sacrestano e tutti continuano allegramente a spettegolare a voce alta. Infine, se vogliamo dirla tutta, le rubriche del Novus Ordo trattano in continuazione del silenzio, ma esso o non viene rispettato o vi è giustapposto, il Vetus Ordo non ne tratta mai, ma il silenzio è così connaturato al rito che non è necessario codificarlo. Anche per questo è stato riscoperto in questi tempi – il papa ha ragione – così logorroici e narcisistici.

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Diceva sempre Benedetto XVI che la Chiesa non la salveranno né i teologi o i riformatori ma – come in tutta la sua storia – soltanto i santi, che il Signore suscita ancora. Come don Giovanni Barra (1914-1975) il sacerdote pinerolese, ancora da molti conosciuto e amato, che il 19 gennaio è stato dichiarato venerabile. Di estrazione contadina, promosse la cultura cattolica negli anni del dopoguerra, amico di don Primo Mazzolari e scrittore fu anche un vero contemplativo. Fondò la Casa Alpina dove generazioni di giovani e famiglie vi furono ospitate e nel 1969 fu chiamato alla direzione del seminario delle vocazioni adulte di Torino sentendo in modo straziante l’abbandono del sacerdozio dei confratelli e la contestazione ecclesiale, appassionato a Cristo e quindi alla salvezza delle anime.

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