POLITICA & SANITÀ

Italia fanalino di coda in Sanità:
meno di 2mila euro per cittadino

Servirebbero 25 miliardi in più per risalire dal fondo della classifica dei Paesi Ocse. I distretti sanitari sottovalutati, mentre sono il fulcro della medicina territoriale. Siliquini, presidente di Siti: "Investire in prevenzione equivale a risparmiare cure in futuro"

“Dopo il grande impegno finanziario imposto dall’emergenza Covid, adesso la scarsità degli investimenti in sanità relegano l’Italia al di sotto della media dei Paesi Ocse. Si investe troppo poco in generale e in particolare sulla prevenzione, non tenendo conto che spendere poco per prevenire patologie significa spendere molto di più, poi, in cure”.

I dati danno ragione a Roberta Siliquini, docente all’Università di Torino, dall’inizio dell’anno presiede la Società italiana d’Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica, in passato è stata, prima donna nella storia, al vertice del Consiglio Superiore di Sanità. Rispetto una media di 2.824 dollari procapite, il nostro Paese ne destina alla salute non più di 2.614. E la stessa organizzazione ha lanciato un allarme sulla necessità di incrementare gli investimenti nella salute almeno dell’1,4% del Pil rispetto al 2019, che per l’Italia si tradurrebbe in 25 miliardi in più all’anno. Guardando all’Europa non può che apparire enorme, com’è, il divario tra le risorse che assegna alla sanità la Germania e quelle disponibili nel nostro Paese: il Governo di Berlino già nel 2020 anni ha investito una mole di denaro pari a 3.855 euro per ogni cittadino, superando la Francia (3.010 euro procapite), mentre appena prima dell’arrivo del Covid l’Italia era ferma a 1.855 euro, di un pelo sopra la Spagna e seguita solo da Grecia e Paesi dell’Est. Sono questi gli investimenti, assai poco cambiati dopo la parentesi della pandemia, con le quali devono fari i conti i sistemi sanitari regionali, ma anche quei necessari incrementi della tutela della salute come tutto il sistema della prevenzione, da tempo penalizzato nella ripartizione delle già scarse risorse. 

Professoressa, guardando alle cifre verrebbe da dire che l’esperienza del Covid, con i suoi tragici e pesantissimi effetti, abbia insegnato poco o nulla. Passata l’emergenza si è tornati a stringere i cordoni della borsa. Una scelta miope?
“Proprio così, sembra che il Covid abbia, sotto questo aspetto, insegnato davvero poco. Dobbiamo ragionare avendo ben presente che il nostro servizio sanitario nazionale non è più sostenibile così come ce lo immaginiamo noi. La popolazione è molto più anziana, costano molto di più così come costano di più le nuove tecnologie, quindi un sistema progettato più di quarant’anni fa non è più adeguato”. 

Oltre a maggiori investimenti cosa richiede la sanità di oggi che deve già predisporre quella di domani?
“Investire più risorse proprio nella prevenzione. E, insieme, rafforzare davvero la medicina del territorio”.

Che poi è stato il mantra per mesi, dopo che il Covid aveva messo a nudo tutte le carenze della medicina territoriale. Adesso si ripongono tutte o quasi le aspettative sul Pnrr che, però, riserva non poche incognite. Pochi giorni fa Agenas in audizione al Senato ha evidenziato ritardi su ospedali e case di comunità. C’è il rischio che quando queste strutture saranno realizzate ci troveremo delle scatole vuote, senza il personale necessario?
“Questo dipenderà molto dalle Regioni, certamente non vedo il Paese preparato a coprire tutte le caselle di queste strutture previste dal Pnrr”.

Torniamo al tema della prevenzione, oltre a maggiori risorse per risparmiarne in futuro, cosa serve al sistema?  
“Incominciamo col dire che prevenzione significa incentivare le vaccinazioni, le attività di screening, promuovere gli stili di vita sani e una corretta alimentazione. Tutte attività che trovano la loro sede naturale nei Dipartimenti di Prevenzione. E questi devono diventare centrali nel sistema sanitario, così come lo devono diventare i distretti”.

Quindi oggi non lo sono, o non ancora a sufficienza?
“Assolutamente no, i distretti quasi mai vengono riconosciuti nel ruolo cruciale che devono avere. E anche questo è un segno di come la medicina del territorio resti una sorta di Cenerentola della sanità”. 

Lei sostiene che queste strutture territoriali abbiano necessità di una governance competente nell’organizzazione e nel management sanitario. Vuol dire che oggi questo non accade?
“Non ci sono sufficienti figure manageriali per gestire i distretti. Una gestione molto complessa, che richiede una visione a 360 gradi dei bisogni di salute delle persone e delle risposte che deve dare il servizio sanitario, servono professionisti formati all’organizzazione sanitaria”.

Invece?
“Invece mentre i direttori sanitari degli ospedali devono essere specializzati in Igiene e Medicina Preventiva, per i distretti non è così. Pensi che ci sono distretti diretti addirittura da figure non mediche, ma amministrative”.

Dunque servirebbe  cambiare la legge nazionale? 
“Certamente, intanto però dei passi in avanti si possono già fare. Sta alla sensibilità di chi bandisce i concorsi, quindi alle aziende sanitarie, ricercare e individuare le competenze specifiche. Un passo indispensabile, insieme a più risorse finanziarie e più personale, se si vuole davvero cambiare in meglio la medicina del territorio”. 

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