Lamentela continua

Davanti al caffè servito in un bar oppure per strada è ormai normale sentire le lamentele di chi condanna gli amministratori comunali ed il governo. In Italia il brontolio è un fenomeno sociale assai curioso, frutto di un percorso collaudato da tempo. La tradizione prevede infatti che nella prima fase l’elettore dimostri cieca fiducia verso il candidato a cui affida il seggio nelle istituzioni, anche quando i presupposti consiglierebbero la prudenza, e poi nella seconda il cittadino riscontra amaramente come ancora una volta il proprio voto abbia fornito al boia la corda per impiccarlo.

Domenico Modugno un tempo cantava: “Tu ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastoni e tira fora li denti!”. Canzone simbolo di un disagio sociale che si perpetua nei decenni e che disegna, salvo qualche breve epoca in cui la ribellione faceva da protagonista in fabbrica come nelle università, una sorta di masochismo invalidante che colpisce soprattutto gli abitanti del Bel Paese.

Le bollette aumentano anche quando cala il costo della materia prima energetica, al pari lievitano i prezzi dei generi alimentari di prima necessità e la speculazione è sempre più determinata a non graziare nessuno. Le famiglie dei lavoratori e dei pensionati pagano il triplo di spese per il riscaldamento e il doppio almeno di quelle condominiali, mentre alcuni prodotti, tra cui la carne, diventano irraggiungibili come nei primi anni del ‘900.

La stessa classe politica, almeno una buona parte di essa, si caratterizza per una crescente arroganza che riduce il decentramento e la partecipazione ad una chimera fricchettona degli ’70, un sogno soffocato dalla realtà delle cose. È norma per un consigliere, soprattutto se circoscrizionale, sentirsi dire che viene informato dell’esistenza di un provvedimento solo grazie alla bontà degli amministratori stessi, perché tutto diventa “prerogativa di Giunta” e all’eletto (che non riveste incarichi esecutivi) niente è dovuto se non un ruolo del tutto decorativo: tanti Marchese del Grillo rivendicano il potere assoluto, recitando il solito mantra “Io so io e voi nun siete un…”.

Eppure questi autocrati in erba sono stati votati. La decisione presa recandosi ai seggi elettorali si dimostra spesso autolesionistica, ma ancor più deprecabile è l’assoluta assenza di controllo nei riguardi di coloro a cui l’elettore affida una città o una regione: un disinteresse crescente e una rassegnazione utili solamente a quegli accentratori di potere che, con il loro agire, umiliano quotidianamente la Costituzione. I nostri vicini di casa, i francesi, dimostrano invece di aver rigettato il sistema feudale negli anni in cui Robespierre arringava le piazze, e i giacobini preparavano il rovesciamento della monarchia assolutistica a colpi di ghigliottina (salvo finire poi loro stessi sotto le grinfie del carnefice).

Potrebbe sembrare un’affermazione paradossale, eppure scendere in piazza per difendere un diritto, così come per chiedere il rispetto di una comunità, è una dimostrazione di stima verso lo Stato, inteso come istituzione democratica a cui avanzare (gridando, se necessario) istanze legittime. Non stupisce allora l’appello rivolto dal Presidente Macron ai rivoltosi che, nelle scorse settimane, bruciavano e vandalizzavano le città della Francia: “rispettate scuole e università, ossia i nostri beni comuni”. Il comunicato dell’Eliseo non appare strano poiché rivolto a cittadini, non a sudditi, di uno Stato che eroga ancora servizi e garantisce la fruibilità a tutti del patrimonio comunale, o nazionale, collettivo.

Da anni le piazze d’oltralpe sono tornata ad essere il simbolo delle rivendicazioni sociali. Prima i “gilet gialli”, imitati maldestramente in Italia da movimenti qualunquistici, poi le grandi marce per la difesa del sistema pensionistico ed ora l’indignazione di massa per l’uccisione di un giovane per mano della polizia. La violenza, sempre deprecabile a prescindere da chi la attua, è il modo in cui la rabbia (coltivata per anni nel terreno della frustrazione) emerge trasformandosi in cieca furia devastatrice. Incendiare un’autovettura, oppure mille, non consegna maggior forza alle rivendicazioni sociali, neppure danneggia il Governo, ma complica l’esistenza ad altri cittadini (ad esempio quando le fiamme divorano l’auto con cui si recano al lavoro).  

Indifferenza e scontri di piazza sono le due facce della medaglia forgiata nei nuovi ghetti europei. Le grandi metropoli dell’Unione si caratterizzano per “ospitare” aree urbane, più o meno estese, destinate agli emarginati. La miseria, nel modello economico iperliberista, deve essere nascosta dallo sguardo di chi invece consuma e spende: il Vecchio Continente sembra oramai determinato nel voler eliminare il welfare dagli elementi costituenti la tanto inneggiata “civiltà occidentale”.

La guerra, infine, sin dalla notte dei tempi aumenta il divario tra le classi: i ricchi diventano sempre più ricchi, speculando su ogni cosa possibile, mentre i poveri cadono nella disperazione assoluta. Le istituzioni democratiche si meravigliano di fronte alla protesta sociale, sempre generata da scelte amministrative a favore dell’interesse lobbistico anziché della lotta contro la diseguaglianza, ma non muovono un dito per sottrarsi dai continui diktat della finanza mondiale.

In Italia tutto per ora tace. La gente si limita a qualche lagnanza tra un sorso di caffè e un giro nel mercato rionale, ma sotto quei volti in apparenza rassegnati si cela un malessere che cresce di giorno in giorno. La politica può scegliere se interessarsi finalmente dei cittadini che dice di voler rappresentare, oppure affidarsi all’impero della speculazione e vedere come andrà a finire.

L’importante è assumersi sempre, e consapevolmente, la responsabilità delle proprie scelte.

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