Festival per pochi

Nei giorni scorsi, Torino è stata sede del Festival delle Regioni. L’evento ha mobilitato numerose autorità istituzionali, tra cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, nella sua ultima sessione, la premier Giorgia Meloni. Una città dal centro storico blindato, seppur non delimitato dalla tristemente nota “zona rossa”, ha accolto per alcuni giorni i partecipanti all’appuntamento interregionale. La sua eccezionalità tuttavia è stata rimarcata solo dalla presenza di cordoni di polizia e di carabinieri in assetto antisommossa, posti a controllo degli accessi al convegno, nonché da alcune violente manganellate assestate sulle teste degli studenti.

La metropoli subalpina, in questa importante occasione, non ha beneficiato di alcun restyling, e la stessa piazza San Carlo non ha celato allo sguardo dei partecipanti il disagio di chi l’ha trasformata in dormitorio serale. Paradossalmente, quindi, se non fosse stato per un paio di cortei studenteschi che hanno percorso le strade intorno a Palazzo Carignano, ricevuti a suon di cariche della polizia, i torinesi non avrebbero avuto alcun sentore dell’esistenza del Festival stesso.  

L’ex capitale sabauda, dopo un lungo periodo di sonno sociale, ha iniziato però a dare qualche cenno di vita. Molti torinesi hanno manifestato curiosità nei confronti dei giovani che contestavano la premier, esprimendo pure qualche disappunto sull’immotivata agitazione delle forze dell’ordine. I commenti che si udivano, da coloro che assistevano al susseguirsi dei fatti, erano in gran parte incentrati sul “fare di più”, ossia sulla necessità di scendere a propria volta in piazza per dare maggior efficacia alla protesta: a quanto pare il malcontento è in crescita.

In effetti Torino, come l’Italia intera, non se la passa bene, e il meccanismo di usare gli immigrati, al fine di distrarre le persone dai temi riguardanti la difesa dei propri diritti, non funziona più come una volta. Mentre da un lato il Festival delle Regioni ha riconsegnato a Torino la paternità dell’Unità nazionale, cosa non da poco vista la crescente affermazione del negazionismo storico neoborbonico, dall’altro l’iniziativa è stata accolta con grande stanchezza dai suoi abitanti. La prima capitale d’Italia ha infatti mostrato, agli sguardi degli ospiti, la profonda crisi che la sta attraversando da un capo all’altro del suo perimetro.

I tempi della progettazione urbana, realizzata grazie ai fondi europei, sono finiti, lasciando così le periferie in balia di un rapido declino. Una situazione rappresentata purtroppo molto bene dall’area di Mirafiori Nord in cui, ad inizio del millennio, venne realizzato il progetto Urban II. Piazza Livio Bianco, il cuore della riqualificazione di quell’epoca, oggi versa in condizioni preoccupanti, e i residenti della zona assistono inermi (da mesi) alla vandalizzazione reiterata della vicina bocciofila oramai abbandonata (punto cardine della riqualificazione stessa).

Lo scempio portato a tanti edifici pubblici usati negli anni preCovid come luoghi di aggregazione, ed ora vuoti, non andrebbe sottovalutato. Lasciare a sé stesse ampie porzioni di territorio significa ferire l’intera città, nonché creare, nella “terra di nessuno”, nuovi ghetti: porre rimedio alla marginalizzazione dei quartieri non è più rinviabile. Abbandono è pure quello che si attua permettendo che molti impianti sportivi comunali siano assegnati a potenti associazioni che puntano solo ad accumulare profitto: realtà che non hanno tempo per interessarsi del disagio giovanile. Scelta politica da cui prende forma il paradosso di un’istituzione pubblica che non è più in grado di combattere l’emarginazione affidandosi allo sport.

Bisogna mettere mano alle casse pubbliche per tornare ad immaginare la riqualificazione sociale. Opera che non prende avvio candidando Torino quale sede delle Olimpiade invernali del 2026, grande evento che si sta rivelando devastante per i comuni coinvolti, oppure puntando sul Torneo di schiaffi, ma progettando le trasformazioni urbane “con” e “per” i cittadini. È giunto il momento di tornare a credere, e di scommettere, nel decentramento e nelle periferie.

Ignorare i tanti fronti di criticità non significa eliminarli. Per governare una città (come uno Stato) necessita avere coraggio, rendendo conto delle proprie scelte alla collettività, e non solamente alle lobby.

print_icon