Quando la guerra era fredda
Juri Bossuto 07:00 Giovedì 19 Ottobre 2023
Ai tempi della Guerra fredda, l’Europa era divisa in due: da una parte quella che si affacciava sull’Atlantico, e ospitava le basi americane; dall’altra gli Stati sotto l’influenza sovietica e riuniti nel Patto di Varsavia. Malgrado la dura contrapposizione politico-militare tra i due blocchi, e occasionalmente il rischio concreto di passare alle vie di fatto, vi erano sempre canali culturali aperti che univano le due porzioni europee.
I popoli, seppur tra molte difficoltà, dialogavano tra loro. La retorica, a partire da quella di Hollywood in cui i marziani cattivi erano la raffigurazione del nemico proveniente da Est, non riusciva a creare un clima di odio reciproco. La macchina propagandistica sembrava creare addirittura una sorta di effetto boomerang, ossia il moltiplicarsi di occasioni di scambi commerciali, e artistici, tra i territori divisi dalla cortina di ferro.
Negli anni ’80 i governi facevano la loro politica estera mostrando i muscoli, e la minaccia nucleare era sbandierata come l’unica strada sicura per evitare la guerra. In realtà, ad esclusione della crisi tra Kennedy e Kruscev del 1962 (installazioni missilistiche a Cuba), gli stessi vertici politici preferivano usare il telefono per confrontarsi nei momenti di crisi, anziché le bombe.
Gli intellettuali europei si ponevano a capo del grande movimento pacifista che attraversava tutto il Continente. Esaltati, integralisti e guerrafondai trovavano spazi esigui da cui esprimere il loro desiderio di radere al suolo il nemico, mentre i media, seppur da sempre strumento di propaganda, raramente sostenevano tesi interventiste invocando il principio, oggi molto in voga, “Si vis pacem, para bellum”.
Immagini di una società che sembrano provenire da un’epoca lontanissima e che invece risalgono a pochi anni fa: prima che un enorme cortocircuito mettesse fuori uso la politica, l’opinione pubblica e la diplomazia. Dai cortei arcobaleno, con tanto di slogan anti Nato, si è passati alla voglia di vendetta, alla brama di sangue e di risposta bellica adeguata. Scrivere o parlare di “Pace” è oramai considerato al pari di un tradimento portato contro la nostra civiltà, oppure quale atto di intelligenza con il nemico.
Chiunque si azzardi a pubblicare analisi geopolitiche, evitando di dividere il mondo semplicemente in “buoni e cattivi”, esce dal coro unanime esponendosi così alla gogna mediatica. Parlare di popoli, di vittime della guerra, degli interessi economici da cui nascono i conflitti, significa essere al di fuori del “patriottismo” richiesto a chiunque si rivolga agli italiani.
Una sorta di isteria collettiva ha colpito la classe dirigente dell’Europa: una grave perdita di vista dei valori umani che si trasforma in gara tra chi lancia alle agenzie stampa le dichiarazioni più “di effetto”. La stessa informazione si lascia andare a commenti del tutto soggettivi, e molti opinionisti indicano con il termine “fake news” ogni notizia che non si allinei al pensiero dominante. Esiste quindi una sola verità, un’unica via di interpretazione dei fatti che non ammette repliche di alcun genere: si direbbe che scegliere di non parteggiare per una delle due parti equivalga ormai a schierarsi con il nemico.
La neutralità non è compatibile con l’attuale sistema democratico, e la competizione tra coloro che giocano a fare i duri genera, di continuo, azioni dagli effetti schioccanti poiché prive di un qualsiasi limite etico. All’indomani dell’entrata dei carri armati di Mosca in Ucraina, ad esempio, sono stati interdetti i teatri agli artisti russi contemporanei, censurando contemporaneamente i grandi scrittori del passato, come Tolstoj. È notizia recente quella riguardante la Fiera del libro di Francoforte, il cui comitato organizzatore ha deciso di revocare il premio assegnato all’autrice palestinese Adania Shibli (a causa della guerra in corso contro Hamas).
Le immagini delle migliaia di palestinesi vittime delle bombe non toccano la classe politica al potere in Europa. Il destino che si accanisce sui popoli, sia quello israeliano che quello arabo, non rappresenta oggetto di discussione e approfondimento nei talk show. Eppure, oggi più che mai i giornalisti dovrebbero porre una domanda a politici ed agli esperti di geopolitica: “Cui prodest? (a chi giova?)”.
A chi giova un folle attacco terroristico portato contro insediamenti israeliani in cui viveva una corposa componente culturale di Sinistra (vere e proprie oasi in uno Stato ebraico orientato massicciamente verso l’ultranazionalismo). Ma soprattutto, l’attacco di Hamas quale obiettivo politico si poneva? Certamente non una vittoria sul campo, impossibile da raggiungere con una tale azione militare, e neppure il riscatto del popolo palestinese: costretto a vivere sotto incessanti bombardamenti e senza i beni di prima necessità.
Le nostre campagne elettorali si giocano oramai sulla fedeltà ai valori cattolici, però nessuno, una volta al governo, presta davvero attenzione alle parole del Pontefice (specialmente quando il Santo Padre parla di pace). Il Papa è l’unica autorità che ricorda al mondo come in guerra il conto lo paghino solamente i civili: le donne e i bambini in primis. Le bombe raramente colpiscono i palazzi del vero potere e sotto le macerie finisce sempre il popolo, sia esso ucraino, russo, palestinese oppure israeliano.
Sperare e volere la Pace non è tradimento nei confronti dei valori occidentali, ma è solo atto di coerenza: è buon senso umanitario. Pace è rispetto verso la nostra Costituzione, è sostegno verso tutti i popoli che abitano questo martoriato pianeta chiamato Terra.