SACRO & PROFANO

Camminare insieme ma decide uno solo

Chiesa tra sinodalità e gerarchia. L'analisi dell'arcivescovo di Torino Repole. A Santa Rita il flyer della Messa domenicale: "Un'omelia che non ti fa la predica". La diocesi di Casale festeggia il suo 550° compleanno, con un logo che fa discutere

L’arcivescovo di Torino Roberto Repole ha rilasciato un’intervista al settimanale diocesano sul consueto tema del sinodo, al quale ha partecipato. In essa cerca, per la verità senza molto successo, di far comprendere cosa sia la sinodalità e che nella Chiesa non ci sono poteri ma solo una corresponsabilità «differenziata», continuando poi con l’innovativo mantra del «camminare insieme». Nel documento finale del sinodo i termini sinodale e sinodalità ricorrono una infinità di volte ma di essi non viene data mai una definizione precisa. Ogni qualvolta si aggiunge al concetto «sinodale» un sostantivo – per esempio stile, senso, esperienza ecc. – la confusione e gli interrogativi aumentano. Rimane il todos, todos, todos ma poi quando c’è di mezzo il potere e la necessità di decidere, si torna alla Chiesa gerarchica del vescovo e del prete ma, soprattutto del papa che adesso – la notizia, pur smentita, è fondata – vuole pure riformare le regole del conclave per garantirsi un successore della sua linea. Insomma, decidono nei campi in cui devono decidere – perché la Chiesa è gerarchica – quelli che devono decidere. Se però è così, non si venga a dire – solo per accattivarsi consensi – che decidono tutti, perché non è vero. Come ha notato Luis Badilla «l’idea sostanziale del sinodo sulla sinodalità è far passare la fallacia che “camminare insieme” equivale a “decidere insieme”. Sono concetti molto diversi e quindi non possono essere assimilati con leggerezza facendo credere che sono sinonimi».

Un teologo in questi giorni ha scritto che il sinodo è stato convocato per «promuovere forme sinodali per le quali nella Chiesa tutti i fedeli possano condividere la responsabilità delle decisioni da prendere». Ora le domande sono semplici. Posto che sia giusto, vi è qualche fedele che possa dire di aver condiviso la nomina di un nuovo vescovo o di un cardinale o di aver condiviso una decisione di governo con il suo vescovo? I trucchi e i trucchetti – anche nella Chiesa – possono produrre applausi, consensi dei media e simpatie, ma non portano da nessuna parte.

Dal sinodo non è uscita nessuna proposta credibile di riforma. A renderlo evidente è stata nei giorni scorsi la risposta del prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, il cardinale Tucho Fernandez, pubblicata l’8 novembre, a dieci giorni dalla chiusura del sinodo, «riguardo alla possibile partecipazione ai sacramenti del battesimo e del matrimonio da parte di persone transessuali e di persone omoaffettive», sul quale ritorneremo. Risulta a qualcuno che tali questioni siano state discusse al sinodo? Addirittura, a tali temi non vi è alcun riferimento, nemmeno indiretto, nel documento di sintesi. Evidentemente il papa e il cardinale prefetto avevano idee ben precise in merito e avevano anche già deciso. Sarebbe questa, cara Eccellenza, la sinodalità?

Tornando all’intervista, alla domanda su quale sia il cuore del messaggio che la Chiesa deve portare nel futuro, l’arcivescovo Repole ha risposto, senza esitazioni, che esso rimane Gesù Cristo: «Colui che rivelando se stesso, ci ha manifestato chi sia Dio, il Dio trinitario. Ci ha rivelato anche chi sia l’uomo e cosa significhi per l’uomo trovare la salvezza. Ci ha portato e ci porta, in quanto Risorto, questa salvezza. Credo che questo annuncio sia il centro assoluto del Cristianesimo: la Chiesa deve mantenerlo con chiarezza, riflettendo ovviamente sul cambiamento dei contesti culturali nei quali avviene l’annuncio». Sembra una risposta scontata, ma oggi purtroppo, in tempi di dottrina fluida e mutante, nella Chiesa non lo è più. Per questo gliene va dato atto.

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È di ieri la notizia che il papa ha deposto – con provvedimento degno della Corea del Nord – il vescovo di Tyler (Texas), monsignor Joseph E. Strickland. Qual era la sua colpa? Aver coperto preti pedofili, provocato dissesti finanziari, immoralità, mala gestio? No, semplicemente quella di non essersi allineato circa la dottrina dell’ammissione alla comunione dei politici pro-aborto, così come sulla morale sessuale e sulle restrizioni alla Messa antica e di averlo fatto pubblicamente con lettere aperte a tutti i fedeli. Come di consueto, dopo l’invito a dimettersi da parte del nunzio, gli è stato mandato un visitatore. Adesso, l’estromissione. Se Benedetto XVI avesse fatto lo stesso con i vescovi che lo criticarono pubblicamente, e frontalmente, all’indomani del motu proprio Summorum Pontificum, circa la metà dell’episcopato sarebbe stata deposta.

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È apparso nei giorni scorsi, sulla pagina Facebook della parrocchia torinese di Santa Rita, un accattivante manifesto che, con entusiasmo adolescenziale, invita alla Messa delle 10,30. Se possiamo sorvolare sulla grafica del manifesto, che potrebbe risalire agli Anni Settanta del secolo scorso, non sono invece da trascurare l’impianto motivazionale e la struttura psicologica veicolanti il messaggio. Se pare che il suo autore sia un diacono della comunità, il contenuto e lo stile potrebbero essere attribuiti al responsabile della parrocchia, l’inclito monsignor Mauro Rivella. L’impatto comunicativo – e anche lo stile – sono infatti tipici di una leadership psicologica che poco o nulla ha a che fare con il servizio del ministero sacerdotale e soprattutto con la Messa che, come scriveva il dimenticato e aborrito Benedetto XVI «non è uno show, non è un teatro, non è uno spettacolo, ma trae la sua vita da un Altro. E questo deve anche diventare evidente» (Luce del mondo p.216). E allora, «Bellissimi canti»; «Un’omelia che non ti fa la predica»; «Super ministranti». Della serie noi siamo i migliori e tutti gli altri non sanno fare nulla! Noi siamo meglio degli altri, noi siamo gli unici psicologicamente ristrutturati, secondo un tipo di impostazione che promana direttamente dalla virgo plus quam potens, la venerabile madre Anna Bissi di Vercelli.

Uno dei buoni difetti o delle cattive virtù dei “boariniani” è infatti la superbia intellettuale e la reale mancanza di delicatezza nei confronti di tutto il bene che gli altri confratelli, fuori dalla loro cerchia, compiono senza alcun autocompiacimento. Fa sorridere come a tanta autocosciente superiorità corrisponda, purtroppo, tanta banalità comunicativa in un manifesto per nulla super. Speriamo che almeno «lettura e offertorio» siano secondo le odiate rubriche, senza la teatralità della dizione forzata dei corsi diocesani e, soprattutto, senza le danze sincretistiche offertoriali.  A Santa Rita, l’unica cosa Super era la figura e l’opera del compianto e sempre più rimpianto maestro Massimo Nosetti.

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La diocesi di Casale Monferrato si appresta a celebrare con grande spolvero i 550 anni della sua erezione. Per la fausta ricorrenza, l’Eccellenza di monsignor vescovo Gianni Sacchi, noto per l’aura semi principesca – a malapena contenuta e modernisticamente interpretata – di cui si ammanta, ha indetto l’anno giubilare con annessa indulgenza plenaria. Essa potrà essere lucrata mediante la benedizione papale che il segretario di stato, cardinale Pietro Parolin, in qualità di legato pontificio, impartirà ai fedeli dopo il solenne pontificale da lui presieduto nella cattedrale di Sant’Evasio. Sua Eccellenza Sacchi non ha comunque badato a spese. Unico neo il discusso logo dell’evento che ha fatto alzare il sopracciglio in diocesi a più di qualcuno. Esso è stato realizzato da Silvio Saffirio, uno dei grandi nomi della pubblicità italiana di riconosciuta eccellenza creativa, e deve essere stato – giustamente – profumatamente pagato. Naturalmente, i fedeli comuni – che non hanno la fantasia dell’ufficio dei beni culturali retto dalla consueta virgo potens – hanno faticato non poco a capire che il logo raffigura due cinque rovesciati e uno zero. Così i casalesi burloni – e poco colti – lo hanno subito interpretato paragonandolo – con salaci commenti – a un coniglietto ammiccante dalle simpatiche lunghe orecchie, oppure ad un cagnolino. Altri ancora, più che lo zero, vi hanno notano soltanto un buco…

Devastationis custodes

La diocesi di Cuneo-Fossano che sotto la guida del suo vescovo monsignor Piero Delbosco, si presenta ormai come l’avamposto più progressista della Chiesa in Piemonte – ha realizzato da non poco tempo e con la competenza tecnica che tutti riconoscono al suo pastore, lo scempio di quel capolavoro del neoclassico – progettata dall’architetto Mario Ludovico Quarini – che è la cattedrale di Fossano, consacrata nel 1791. Un’offesa, più che all’estetica, al buon gusto. Nel presbiterio sono stati piazzati un altare, una cattedra, i seggi e un tubo, che si dice sia il tabernacolo, completamente e violentemente avulsi dall’armonia di tutto l’insieme. Così, come avviene ormai quasi ovunque, l’antico splendido altare maggiore è stato oscurato e – come insegnano i liturgofrenici – completamente «musealizzato». Qualche fedele fossanese, non ancora obnubilato dalle teorie pseudoliturgiche, ha notato che la cattedra episcopale sembra il seggiolone del faraone. Il progetto è di don Luca Gazzoni, membro della Piccola Fraternità di Emamus, direttore dell’ufficio liturgico diocesano e, come recita il giornale diocesano, «conosciuto (prima a Torino e poi a Fossano) per la sua passione e competenza in ambito liturgico».

Nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea apostolo a Bergamo, la sera del 4 novembre è stato allestito un altare azteco con i simulacri di un uomo e una donna, il primo con la maschera a due teschi e la seconda col teschio dipinto e le piume bianche e rosse che rappresentano le divinità azteche del culto pagano ed esoterico della “Santa Muerte”. Cosa simili mascherate ci facciano davanti al tabernacolo ove è riposto Nostro Signore Gesù Cristo è inutile ormai domandarselo. Nelle chiese parrocchiali si può fare tutto – inscenare, conferenze, concerti, balletti, esibizioni di clown, mascherate, dibattiti, incontri politici, eventi sportivi, inscenare profanità paganeggianti etc. tranne che, secondo l’articolo 3 della lettera apostolica Traditiones custodes, celebrare la Santa Messa tradizionale. Su questo si è inflessibili, meglio le chiese vuote.

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