SACRO & PROFANO

Repole invita a guardare in basso. Cirio in "conclave" con i vescovi

A una prima lettura, la Lettera pastorale dell'arcivescovo di Torino pare il contraltare di quella del suo predecessore Saldarini. Due piemontesi nella delegazione italiana al sinodo di ottobre. Tra i "nuovi peccati" la troppa fedeltà alla dottrina

Mercoledì scorso, presso la casa diocesana di Altavilla, si è riunita la Conferenza dei vescovi piemontesi che ha incontrato il presidente della Regione, l’albese Alberto Cirio il quale, in forma smagliante e giocando in casa, è stato il mattatore della giornata, sovrastando e stordendo i presuli con l’affabulazione consueta e dove ha spaziato dalla sanità a Stellantis, dal lavoro all’ambiente, dai beni culturali all’edilizia di culto, dalla salvaguardia del creato ai migranti, dall’occupazione alla sostenibilità ambientale. Insomma, come avrebbe detto Antonio Gramsci, «vaghi cenni di universalità».

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Parafrasando la prima lettera pastorale del cardinale Giovanni Saldarini – che quest’anno compirebbe cento anni e che forse nessuno ricorderà – Chiamati a guardare in alto – si potrebbe invece titolare la prima lettera dell’arcivescovo Roberto RepoleVoi stessi date loro da mangiare – pubblicata in questi giorni e che sarà trionfalmente presentata all’assemblea del clero di domani, “Chiamati a guardare in basso”. Niente di nuovo e nulla di originale, sia nel tema sia nei contenuti e questo un po’ ha stupito perché dal governo “boariniano” della diocesi di Torino, concentrato di intellettuali, ci si sarebbe aspettato qualcosa di più e di diverso. Ma sulla Lettera ci diffonderemo ampiamente nei prossimi articoli.

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La delegazione italiana al sinodo di ottobre, composta da cinque vescovi, ne conta ben due appartenenti al Piemonte ecclesiastico: l'arcivescovo di Torino Repole e il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla il quale, dicono, stia procedendo alla vendita di vari beni diocesani per poter ripianare i debiti, fra questi l’ex seminario di via Monte San Gabriele, l’ex Centro sociale di viale Giulio Cesare e altri sei immobili. A proposito di sinodo, prima dell’apertura dei lavori avrà luogo una Liturgia penitenziale, presieduta da papa Francesco, dove si confesseranno dei “nuovi peccati”, non previsti dal Decalogo, la cui enunciazione ha del patetico, se non del ridicolo e che comunque appaiono come una forzatura per far evolvere la prassi ecclesiale verso qualcosa di nuovo senza dirlo: peccati contro la pace, il creato, le popolazioni indigene, i migranti, gli abusi, le donne, la famiglia, i giovani, i poveri e infine – si presti attenzione – contro la dottrina «usata come pietra da scagliare» e contro la sinodalità, ossia contro la «mancanza dell’ascolto e della comunione e partecipazione di tutti».

Se i primi, non valutando il contenuto dell’azione, le circostanze e le intenzioni risultano superficiali e incomprensibili, gli ultimi due ultimi “peccati” non sono che degli slogan, peraltro non traducibili nel linguaggio teologico e che servono solo per colpire chi ha come unica colpa quello di essere fedele ai fondamentali della dottrina o di averne richiamati i principi, come spesso anche noi, sempre citando il Magistero, ci permettiamo di fare. Dovremmo allora chiedere perdono per tutte le volte che abbiamo manifestato dubbi e posto domande su quella sinodalità nei confronti della quale se c’è un punto che tutti accomuna, salvo i vertici bergogliani, è che nessuno ha ancora capito cosa sia e come si eserciti, ma solo che sarà un «processo» in evoluzione e una prassi da sperimentare? Come qualcuno ha giustamente osservato: «Quando si assume la logica storicistica – come fa la sinodalità come processo – niente è più peccato, perché quando il peccato viene visto come tale lo si è già superato e non c’è più.

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A Singapore rispondendo a braccio alle domande dei fedeli, il papa ha affermato: «Ogni religione è un cammino per arrivare a Dio. Sono diverse lingue per arrivare a Dio, ma Dio è per tutti. Noi siamo tutti figli di Dio. C’è un solo Dio e noi, le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno mussulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini». Sono parole che hanno sconcertato molti in quanto se esse hanno un senso vuol dire che una religione vale l’altra e negano implicitamente che quella cristiana sia l’unica vera, l’unica in grado di portare a Dio, per cui l’autorivelazione che Cristo fa di sé stesso nei Vangeli, insegnata dalla Chiesa fin dai primordi, appare inutile, così come la Redenzione per cui Cristo si è offerto alla Croce. Avrebbe insomma ragione Vito Mancuso. Significa rifiutare, in contrasto con quanto chiaramente affermato dal Concilio Vaticano II, che gli uomini non possono in alcun modo giungere a Dio, sebbene lo cerchino, se non per mezzo di Gesù Cristo e della sua Chiesa.

Per secoli la preoccupazione principale dei Padri, dei dottori e dei teologi è stata quella di mostrare come il cristianesimo sia l’adempimento della religio vera. Perché se così non fosse, vorrebbe dire che quando Gesù dice di se stesso di essere «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) si sia proprio sbagliato, non avendo capito nulla del dialogo interreligioso oppure, pensando di essere Dio, manifesta un suo delirio di onnipotenza. Seguendo la parole del papa urgerebbe allora cassare o rettificare la famosa e contestata dichiarazione Dominus Jesus del 2000 in cui si affermava: «È quindi contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della Rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni».

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Rispetto alla ormai famosa Nota su Medjugorje occorre, per comprenderne il senso – sempre che lo abbia – rifarsi a quanto prescritto dalle Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali emanate lo scorso 17 maggio dal Dicastero per la dottrina della fede e presentate dal cardinale prefetto Tucho Fernández e che non pochi teologi e canonisti hanno criticato. Fino ad allora e per secoli di fronte a presunte apparizioni, la Chiesa giudicava in base a tre criteri: «consta la non soprannaturalità del fenomeno», «non consta la soprannaturalità», «consta la soprannaturalità». Essi vengono, con le nuove norme, sostituititi da sei nuovi criteri che vanno dalla esplicita dichiarazione di non soprannaturalità fino al nihil obstat che però nulla dice circa la natura del fenomeno in questione limitandosi a registrarne i frutti spirituali. Ma il punto nevralgico delle nuove norme è l’art. 22 secondo cui «il vescovo diocesano presterà attenzione a che i fedeli non ritengano nessuna delle determinazioni come un’approvazione del carattere soprannaturale del fenomeno». Ci si dedicherà quindi solo all’aspetto puramente pastorale di presunte apparizioni o miracoli con la possibilità di arrivare a un giudizio negativo, ma mai – si badi bene – affermativo nel merito.

Le nuove norme sottraggono poi ai vescovi locali di esprimersi accentrando tutto a Roma. Con tali criteri la Chiesa, che dovrebbe credere, pur con tutta prudenza, nel miracoloso e nell’intervento straordinario di Dio, i messaggi celesti di Paray-le-Monial, di Lourdes e di Fatima, di cui la Chiesa ha riconosciuto l’origine divina, sarebbero liquidati con un semplice nihil obstat permettendo soltanto l’«esperienza spirituale» ma senza mai nessun riconoscimento di soprannaturalità. Ora, la prudenza di fronte alle apparizioni è più che giustificata e a nessuno mai la Chiesa ha imposto di credere ad esse. Oggi però si vuole escludere per principio la soprannaturalità di ogni fenomeno, apprezzandone soltanto i «frutti spirituali» senza tenere conto che rinunciare a ogni pronuncia di soprannaturalità significa separare la fede dalla ragione per ridurla ad autosuggestione o sentimento. L’impressione di molti è che le nuove norme abbiano un carattere esclusivamente “politico”, o meglio, “economico”, perché volte a non scoraggiare i pellegrinaggi con i loro annessi e connessi benefici materiali. Eppure, Gesù è molto chiaro: «Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono fa frutti buoni, ma l'’albero cattivo fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, né un albero cattivo fare frutti buoni. (...) Li riconoscerete dai loro frutti». (Mt 7,16).

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