Stop propaganda sull’auto

Dopo l’insediamento della nuova Commissione Europea occorre accorciare la distanza tra Mirafiori e Bruxelles perché la rimodulazione della strategia europea sulla transizione elettrica non stravolga, vanificandolo, quanto investito sinora dalle imprese e al contempo ammorbidisca la transizione ampliando la gamma di alimentazioni.

Lo spostamento verso il centrodestra europeo non deve stupire, sino a quando i governi, con diritto di veto, conteranno più del Parlamento europeo è chiaro che la Commissione terrà conto anche dei risultati elettorali nei singoli paesi e non solo della composizione dell’assemblea sovranazionale.

In questo contesto si svolge l’azione sindacale e politica di governo e opposizione sul tavolo automotive che dovrebbe essere un momento alto di condivisione anche con le imprese. Giusto manifestare da parte sindacale ma con coerenza perché abbiamo sindacalisti e sindacati che hanno fatto della transizione elettrica un dogma e una strategia politica salvo poi dovere chiedere un secondo modello a Mirafiori non Bev, per supplire all’elettrico che non vende per molteplici cause e fattori di cui abbiamo già ampiamente parlato. Intanto chiariamo che Mirafiori è stata al centro di investimenti e scelte industriali, da parte di Stellantis, che in alcuni casi derivavano da richieste sindacali, in particolare della Fiom-Cgil, a partire dall’Hub di economia circolare, il cosiddetto “sfasciacarrozze” e recupero materiali, che prevedrebbe a regime 550 addetti entro il 2025 con 40 milioni di investimento e 73mila metri quadrati di superficie utilizzata. Inaugurato a novembre 2023 non mi pare stia dando un grande contributo all’occupazione anche perché per anni non ci sarà elettrico da riciclare. Insomma una richiesta ideologica e fuori dal tempo. Non solo. C’è poi il Battery Center, inaugurato a settembre dello scorso anno, ha richiesto 40 milioni di investimento, 8mila metri quadrati di superficie e occuperà 100 dipendenti a regime. E ancora l’investimento a tre cifre per il green campus e infine, ad aprile 2024,  il Centro per la produzione di cambi elettrificati a doppia frizione (eDct), destinati alle vetture ibride, che punta a raggiungere una produzione di 2.100 unità al giorno, a fronte di una capacità complessiva pari a 600mila esemplari l’anno. Una struttura tecnologicamente avanzata e un livello di automazione del 45% che opererà a regime con 500 dipendenti. Quindi investimenti e diversificazioni, sopratutto negli ultimi due anni, ne sono stati fatti a Mirafiori ma a parte il cambio ibrido, che ha una prospettiva futura, il resto incide poco sui livelli occupazionali. Ciò che appare quantomeno curioso è che molte di questi investimenti siano il frutto di richieste sindacali.

Nel 2026 entrerà in produzione la 500 Ibrida, un segnale importante che va nella direzione di rimodulare la transizione verso l’elettrico attraverso lo sviluppo dell’ibrido che il mercato sta apprezzando. Sopratutto una diversificazione per Mirafiori che non poteva caratterizzarsi solo come produzione di elettrico. Il secondo modello a Mirafiori è una richiesta sindacale ma l’ibrido anziché il Bev è in contraddizione con ciò che rivendicano parti sindacali. Va tutto bene purché sia lavoro?

Quando il 18 ottobre, i sindacati scenderanno in piazza penso che occorra spiegare ai lavoratori anche i risultati raggiunti in una situazione difficile e complessa, in cui ogni giorno c’è la possibilità di rivedere obiettivi e target da parte della case produttrici stante la forte instabilità geopolitica e economica a livello mondiale, complici anche i pesanti conflitti in Medio Oriente e ai confine dell’Europa, con l’invasione dell’Ucraina. Se diciamo solo e sempre le cose che non vanno si crea un clima di sfiducia e mancanza di prospettiva e speranza che si trasforma anche in un allontanamento dal sindacato e un approdo dei lavoratori a destra come dimostrato ampiamente negli ultimi anni.

Penso che al prossimo tavolo automotive occorra chiedere al governo coerenza d’azione e meno propaganda e polemiche sterile come fatto sinora, oltretutto con scarsi risultati. I dazi europei contro l’import di auto dalla Cina sono una iattura in generale ma per il nostro Paese impediranno molto probabilmente l’arrivo di insediamenti produttivi nuovi o la produzione di marchi cinesi con partecipazioni Stellantis. Il ministro autarchico del Mimit si riconcili con se stesso e, se ha un minimo di visione, capirà che è inutile strepitare contro Stellantis perché non avvia la gigafactory a Termoli se sono proprio le destre europee a chiedere non solo il rallentamento alla transizione elettrica ma da parte di alcuni partiti perfino lo stop alla transizione. Si metta d’accordo con i suoi alleati nel Parlamento europeo. I mercati non si governano con i divieti come dimostrano i dati di import ed export delle ex repubbliche sovietiche confinanti con la Russia da dove molte imprese europee, compresa l’Italia, bypassano l’embargo posto dai propri governi, che tacciono. Anche le opposizioni dovrebbero esprimere una posizione forte sull’automotive e la tempistica di transizione sennò le carte le danno le imprese come dimostra la chiara posizione di Confindustria.

Non basta lanciare allarmi o proclami ma analizzare e fare proposte concrete. Ora va di moda il rischio che in Italia accada ciò che in Germania preannuncia Volkswagen con licenziamenti e chiusure di stabilimenti. Anche qui politici e sindacalisti agitano la paura e l’allarmismo. I dati ci dicono che VW ha 10 stabilimenti in Germania, Stellantis 5 in Italia e 20 in Europa come VW. Una situazione ben diversa  tra le due aziende e i due Paesi.  Tavares ha ancora, l’altro ieri, dichiarato che non c’è un problema occupazionale tant’è che si sta, sì, riducendo il personale ma attraverso accordi sindacali. VW invece dichiara la possibile chiusura di stabilimenti. Sono due cose ben diverse e se il sindacato non le spiega bene ingenera solo paura che si ritorcerà anche contro le scelte sindacali. Quando si dice che non va mai bene nulla, non andrà neanche bene l’accordo sindacale per buono che sia.

L’altro aspetto complicato è l’indotto automotive perché se l’export chiude il 2023 a +7% per un valore totale di 25,3 miliardi di fatturato, la produzione cala del 3,6%. Il 20% dell’export è destinato in Germania (primo Paese per esportazione), dove è vero che non c’è solo VW ma non è che Mercedes o BMW stiano meglio. La Cina è il primo paese asiatico per export con 291 milioni  e un +3,5% sul ‘22. Si capisce quindi che se si ferma la locomotiva tedesca sono guai seri per l’industria automotive, se poi si scatena una guerra commerciale con la Cina si vanificano i progetti di “un secondo produttore” in Italia. Le scelte industriali, il governo dovrebbe capirlo, non possono essere dettate dal furore ideologico, lo capisca anche un pezzo di sindacato, però.

C’è poi il settore dell’aftermarket, una filiera composta da quasi 29 mila imprese, prevalentemente a conduzione familiare, operanti nella produzione e nella vendita di ricambi di auto. Al Nord si concentra oltre il 70% del valore di questo comparto, trainato dalla Lombardia (28,6%). Il settore vale 28,1 miliardi di euro e fattura il 46,4% all’estero, occupa quasi 400 mila persone. La maggior parte di queste imprese, non sembra essere preoccupata dall’elettrificazione dell’automotive. Questo dato positivo è sintomatico della realtà dei fatti. L’elettrico costa caro e non vende perché l’utente si rivolge spesso al mercato dell’usato facendo crescere l’aftermarket.

“Grande è la confusione sotto il cielo” diceva Mao Tse Tung poi, vabbè, fu anche il titolo di un libro di Massimo D’Alema ma evitiamo la conclusione di Mao perché qui la situazione non è eccellente.

 

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