Torino tanta roba

Quando i sensi percepiscono una realtà e la politica ne racconta invece un’altra, diametralmente opposta alla prima, si è colti dalla sensazione di essere alieni sbattuti sulla Terra da un’altra galassia. Tutti coloro che amano guardarsi intorno mentre passeggiano, e che si pongono domande critiche su quanto notano mentre lo fanno, non possono evitare di cadere vittime della più profonda frustrazione di fronte alle contrastanti narrazioni di amministratori pubblici ed esperti: racconti che ritraggono una quotidianità molto differente da quella che il territorio mostra ai cittadini più attenti.

I torinesi sono, quindi, gli extraterrestri per antonomasia, poiché hanno regolarmente a che fare con una città sofferente, seppur mai disposta ad arrendersi, mentre grandi eventi e inaugurazioni (con tanto di red carpet) presentano il capoluogo piemontese come una brillante vetrina, in cui il “salotto bene” ambisce specchiarsi per dare libero sfogo al proprio narcisismo.

Il concetto di “grande evento” quale risolutore di qualsiasi affanno che possa manifestarsi all’ombra della Mole, affascina i poteri torinesi: una sorta di panacea grazie a cui diventa possibile aggirare la crisi provocata dalla delocalizzazione della produzione FIAT/Stellantis, e che al contempo permette di ignorare la continua chiusura di servizi pubblici nelle periferie. La Pubblica Amministrazione non perde occasione per ribadire, come un mantra, che “mancano i soldi”: mancano i soldi per le manutenzioni degli edifici comunali; mancano i soldi per la gestione pubblica degli impianti sportivi; mancano i soldi per riaprire le piscine, i centri civici, le sedi della Polizia Municipale, le ludoteche e i centri di aggregazione sociale; mancano i soldi per riparare le aree gioco dei parchi e per curare i parchi stessi; mancano i soldi  per ogni cosa, compresa la manutenzione di strade e marciapiedi, ma non per le priorità (sovente effimere) decretate dall’esecutivo che governa la città.

La Giunta comunale ha infatti recentemente commissionato un sondaggio che ha coinvolto circa seimila persone a cui è stato chiesto quali fossero, secondo loro, i punti forti di Torino. Sono stati spesi fondi pubblici per stabilire che la metropoli dell’auto ha cambiato pelle (almeno in apparenza) trasformandosi in quella dell’arte, nonché dell’università. Secondo gli analisti è emerso un Paese delle Meraviglie, purtroppo privo di Alice e del Cappellaio Matto, dove tutto funziona benissimo: chiudono librerie, cinema, circoli culturali, ma Torino è comunque luogo d’arte, nonché di cultura (caratteristiche perciò immaginarie, poiché non connesse con la realtà territoriale).

La Cultura non si accompagna più con l’istruzione, ma passeggia sul red carpet per onorare l’ennesimo grande evento salvifico: spettacolo, o manifestazione sportiva, che attrae sponsor milionari e garantisce il sold out in poche ore (con tanto di golosi ricavi dovuti alla vendita di migliaia di biglietti a prezzi assolutamente non popolari). Una sorta di “mordi e fuggi” organizzato da chi usa il territorio, e sovente i parchi comunali, senza preoccuparsi minimamente di interloquire con le istituzioni decentrate, con i residenti e tantomeno con le aggregazioni culturali, o sportive, dell’area cittadina sfruttata dall’industria dello spettacolo. 

Il governo della città ha destinato 432mila euro (triennali) ad un investimento definito “strategico”, poiché inerente al City Brand: lo studio del nuovo logo di Torino, ossia la sintesi perfetta che dovrà racchiudere il passato, il presente e il futuro della città. Obiettivo auspicato anche da un recente convegno organizzato dall’amministrazione comunale (che ha chiamato a raccolta imprenditori, fondazioni e cittadini che contano) da cui è emersa la necessità di riprogettare i torinesi, rendendoli contemporanei. Forse, sarebbe stato decisamente più utile destinare quei fondi alle periferie, per impegnarli in opere di riqualificazione urbana e sociale.

In sintesi, secondo gli atti conclusivi dell’assemblea, per il bene di Torino è necessario sostituire i residenti, oramai obsoleti, seguire attentamente i consigli della Fondazione Bloomberg e trovare uno slogan degno di rappresentare la prima Capitale d’Italia. Il patron di Eataly, sempre pronto a insegnare con grande umiltà (seppur malcelata) come si avvia un’impresa, ha dato il suo prezioso contributo creativo proponendo l’accattivante slogan “Torino tanta roba”.

“Torino tanta roba”: la città del tappeto rosso, dei vip e degli appuntamenti di grande richiamo internazionale, compresi gli eventi legati all’impegno civile (come l’Europe Pride); del “tanto” business per pochi (i soliti) e del nulla per tutti gli altri. Le periferie da tempo aspettano che la “Tanta Roba” arrivi pure da loro, magari iniziando con la riapertura degli innumerevoli locali e degli impianti chiusi per assenza di manutenzione ordinaria, e “Tanta Roba” sperano arrivi pure coloro che dormono in strada, oppure sotto il porticato di Palazzo Carignano (trasformando il colonnato della facciata in un enorme contenitore di sacchi neri, cartoni e materassini). 

Tanta Roba, certo, ma solo per gli stessi di sempre. 

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