Auto ed emissioni, così l'Europa resta in panne

Il calo delle vendite di auto è solo derivante dal mercato che rallenta? Proviamo a capirlo. Dal 1° gennaio 2025 la normativa Ue sulle emissioni Co2 stabilisce che i costruttori di auto devono ridurre le emissioni da 106,6 g/km a 93,6 g/km, un significativo abbassamento. Sforare sulle emissioni significa incorrere in multe salatissime, che sono calcolate in 95 euro moltiplicati per l’eccesso di g/km di Co2 e per il volume delle immatricolazioni. L’Acea (Associazione dei costruttori europei, di cui Stellantis non fa più parte)  protesta: “L’Unione Europea si trova in una crisi causata dalla scarsa richiesta di veicoli elettrici da parte dei consumatori e dalla concorrenza sleale dei produttori di veicoli elettrici dei paesi terzi, il che significa che l’industria Ue non sarà in grado di raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni”. Ma è concorrenza sleale? Oppure le case costruttrici europee non vendendo auto elettriche hanno interrotto la produzione di auto a combustione interna per, artificialmente, diminuire le loro emissioni di Co2 e non incappare nelle sanzioni della Ue?

L’obiettivo del 93,6 g/km è preoccupante perché nel periodo gennaio-giugno ‘24 tutti i produttori con motori a combustione interna nella loro gamma di modelli sono al di sopra, solo Geely (che possiede, tra gli altri brand, Volvo, Polestar e Lotus) e Saic Group (che controlla Mg) sono sotto tale soglia. Dopo di loro, Toyota (105 g/km) e Bmw (106 g/km) hanno bisogno di una riduzione relativamente moderata, ma tutti gli altri dovranno fare sforzi significativi. Ciò sarà particolarmente impegnativo per il Gruppo Volkswagen (123 g/km) e per Ford (125 g/km), Stellantis (113 g/Km) Renault-Nissan (114 g/km).

Acea ritiene improponibili questi limiti denominati Cafe (Corporate average fuel economy) imposti per il 2025 e traccia quattro differenti scenari “bui”: il primo prevede lo stop alla produzione di 2 milioni di automobili e di 700mila van per portare la media delle emissioni dei costruttori al di sotto delle soglie imposte, un intervento che si tradurrebbe nella chiusura di oltre otto fabbriche per un anno; il secondo prevede di non intaccare la produzione, esponendo i costruttori a multe per 13 miliardi di euro per le auto e di più di 3 miliardi per i van; il terzo parla di una “drastica riduzione” dei prezzi delle auto elettriche, per venderne di più intaccando i margini a meno di interventi di incentivazione; il quarto riprende il concetto di “pooling” e di alleanze con costruttori extraeuropei per ridurre i valori medi di emissione.

I dati di vendita ci dicono che su 9 milioni e 779mila auto immatricolate nel 2024 in Europa, sino a settembre, oltre a 281mila Volvo e 249mila Tesla, ci sono 182 mila Saic (la maggior parte con marchio Mg con motore endotermico), le altre case cinesi  hanno numeri non significativi. Questi dati comprendono tutte le alimentazioni, quindi è lecito supporre che le auto elettriche siano un numero talmente limitato da non fare statistica. Tra quelle 9,8 milioni di auto, le elettriche sono state complessivamente, 1,4 milioni, cioè il 14% del mercato europeo. Si può dire che, a oggi, i cinesi (con un a quota di mercato intorno al 7-8%) non ci stanno invadendo e quindi sono incomprensibili i dazi europei. Sicuramente da qui al 2035 le quote aumenteranno. Gli analisti sostengono che i costruttori europei, escludendo i cinesi e le produzioni importate, dovrebbero superare abbondantemente il 25% di Bev per raggiungere i 93,6 g/km e ad oggi la quota è di circa il 14% del mercato solo elettrico. Anche questi numeri non giustificano il senso dei dazi decisi dall’Unione europea mentre sarebbe da favorire l’apertura di stabilimenti in Europa di case costruttrici cinesi per creare occupazione insieme al mercato e compensare i cali occupazionali delle case automobilistiche europee.

Ovviamente la crisi Jeep in Usa con gli errori di Stellantis e di Hyundai ci dicono che il problema non è solo europeo ma in questo momento la questione vera è quali saranno i paesi europei capaci di accogliere stabilimenti progettuali e di costruzione dei brand cinesi. La Cina sembra orientata verso i Paesi europei che hanno votato contro i dazi. L’Italia nelle sue politiche sull’auto contraddittorie e al di là delle roboanti dichiarazioni governative non è ben posizionata. Mancano inoltre infrastrutture per la ricarica e l’energia costa troppo, due fattori imprescindibili se si vuole ampliare il mercato dell’elettrico. Da considerare che oggi il mercato che tira rimane l’ibrido e su questo i marchi cinesi sono molto competitivi e agguerriti, rimane ben presente la questione del prezzo che è anche molto competitivo a favore dei cinesi e qui occorre considerare l’altro aspetto dei costi di produzione più alti nei Paesi storici della Ue e infatti Byd guarda all’Ungheria o alla Slovacchia, contrarie ai dazi.

In un periodo storico in cui l’Unione Europea dimostra tutta la sua debolezza, insidiata anche dall’elezione di Trump, la crisi di governo in Germania e l’avanzare della destra in Europa le imprese, dei quattro scenari indicati da Acea per affrontare la crisi, hanno scelto il primo: per stare nei parametri europei di emissioni di Co2 si chiudono stabilimenti. La politica non può stare inerte perché così si percorre la strada di scaricare sulle fasce più deboli della società la crisi dell’automotive e l’incapacità dell’Europa di fare scelte ragionevoli anziché seguire il furore ideologico dei catastrofisti ambientali o dei negazionisti della crisi climatica.

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