Grandi eventi, piccoli ritorni

I “Grandi Eventi”, i red carpet, gli appuntamenti sportivi internazionali durano in media una decina di giorni. Gli appuntamenti di richiamo iniziano con importanti allestimenti; con operai che montano strutture e scaricano furgoni pieni all’inverosimile; con il posizionamento di installazioni d’effetto, a cui è assegnato il compito di stupire cittadini e turisti. Dopo qualche giorno tutto svanisce e, nel classico scenario del giorno dopo, la gigantesca scenografia viene portata velocemente altrove.

L’opera di smontaggio della logistica, dei servizi e delle strutture di “immagine” non è mai completa. Ogni “Evento” lascia in realtà ferite, cicatrici nel tessuto urbano, oltre a qualche buon ricordo che si mescola con la memoria delle difficoltà subite da chi risiede ai margini delle location scelte dagli organizzatori. Purtroppo, tra quanto rimane nel dopo, raramente è possibile trovare traccia di una condivisione tra territorio-comunità e concerto, oppure tra associazioni sportive e competizioni agonistiche.

I “Grandi Eventi” spariscono con la stessa velocità con cui arrivano. A volte vengono anticipati da “Grandi cantieri”, il cui impatto sulla città è sempre violento: alcuni stravolgono parchi cittadini, come il Meisino e quello della Confluenza, mentre altri deformano interi quartieri (sovente in peggio, e poche volte in meglio). In tale contesto, Piazza d’Armi merita un’attenzione particolare, poiché è l’area verde dove ciclicamente (più che altrove) avvengono tentativi di riduzione del manto verde a favore del cemento. 

Il Parco dei Cavalieri di Vittorio Veneto, infatti, sin dagli anni ’70 viene periodicamente mutilato di alcune sue parti. Suddiviso in tre porzioni, di cui quella centrale (per fortuna) di proprietà dell’Esercito, ha subito attacchi sia nello spicchio prospicente corso Monte Lungo, dove sono stati costruiti una Stazione dei Carabinieri e un eliporto (in seguito diventato area sosta camper), che in quello che si affaccia sullo Stadio Olimpico, trasformato in piazzale dedicato alla sicurezza del pubblico che si reca alle manifestazioni.

Nel 2005, anno olimpico, Piazza d’Armi ha perso un’importante porzione di verde, rischiando addirittura di diventare il giardino privato di un albergo: pericolo scampato grazie alla tenace opposizione attuata dalla Circoscrizione (dell’epoca) contro il progetto comunale. In quell’anno è stato comunque sacrificato il manto erboso prospicente il Pala Isozaki, e adesso, in occasione delle Atp Finals, il parco ha perso un’ampia ulteriore superficie destinata al Turin Fun Village (9.000 metri quadrati). 

Gli appuntamenti internazionali sportivi, come quelli musicali, assomigliano oramai a uno tsunami che si abbatte sul territorio, anziché a un insieme di momenti culturali. Il pubblico, solitamente, per accedervi deve pagare costi elevatissimi, come accaduto per l’evento tennistico, il cui ticket di ingresso ha raggiunto il costo di 1500 euro (con picchi ancora più alti per la serata della finale). Gli sponsor, al contempo, hanno piena libertà d’azione, fanno e disfano tutto ciò che vogliono. Durante le Atp, intere vie in centro, ad esempio via Carlo Alberto, si sono trasformate da aree pedonali a lussuoso, ed esclusivo, parcheggio di servizio, così come il caos ha regnato sovrano nelle zone vicine ai siti delle competizioni tennistiche.

Il business regola ogni momento del “Grande Evento”, attorno al quale ruotano normalmente enormi risorse finanziarie: ancora una volta, il profitto che ne deriva è privato, ma il costo è pubblico. Un costo per la comunità che difficilmente è rubricabile alla voce “investimento”, poiché le ricadute del giorno dopo sono spesso limitate al settore alberghiero, con qualche effetto su quello turistico. Il territorio, soprattutto, ne raccoglie un’eredità misera, oppure in qualche caso solo debiti.

In questa occasione è inutile, perché noto ai più, citare i monumenti allo spreco, quali sono (tra gli altri) il trampolino di Pragelato oppure gli impianti olimpici di Cesana, ma vale invece la pena citare le opere “minori” solitamente smantellate nella fase post evento (come i famosi, e costosi, Gianduiotti di piazza Solferino), oppure gli spazi creati solo per il merchandising (tra cui si annovera il Fan Village di Piazza D’Armi). Utile, inoltre, ricordare il debito in cui sta naufragando Torino: causato in parte dai famigerati investimenti nei “derivati”, e in parte dalla spesa affrontata per realizzare le Olimpiadi invernali. 

Purtroppo, quando arriva un “Evento” si spreca regolarmente un’occasione importante per coinvolgere il territorio, le scuole, le realtà di base; per far sì che non rimangano solo macerie dopo l’atterraggio dei “Big” a Caselle, cosicché il business porti (almeno) qualche vantaggio diretto a zone della città oramai prive di servizi e strutture sportive di libero accesso. Oggi, chi vuole praticare sport deve generalmente mettere mano al portafogli, salvo abbia la fortuna di incontrare sul suo cammino una delle tante associazioni di base: realtà capaci nel trasmettere la passione ai propri iscritti, nonché luoghi in cui si formano i campioni di domani.

Nel campo artistico la situazione è simile alla precedente. La nostra città conta decine di gruppi musicali, o teatrali, dalla spiccata creatività, i quali non hanno luoghi per suonare e neppure per lavorare: situazione tragica, poiché impedisce all’arte di essere fonte di sostentamento. Situazione paradossale da cui deriva una frattura profonda che separa la città reale da quella immateriale dell’Evento esclusivo.

Un Grande evento è davvero tale quando, oltre a cachet e premi milionari, permette una relazione tra artisti, sportivi e cittadini; quando si mescola con il territorio, andando oltre all’arido business, permettendo così il confronto tra culture, o l’incontro tra dilettanti appassionati e campioni.  

La coda per assistere al passaggio di un’autovettura con a bordo un vip, oppure l’acquisto di gadget creati appositamente per l’occasione, non esprime un “Grande evento”, ma il volto con cui si mostra al pubblico l’industria dello sport, o della musica. Cambiare paradigma, non lasciando il monopolio al business, è possibile, volendolo, grazie a un semplice atto: coinvolgere il territorio anziché usarlo.

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