Guerra e pace
Juri Bossuto 06:43 Giovedì 12 Dicembre 2024
La caduta del muro di Berlino metteva apparentemente la parola “fine” alla Guerra fredda, al mondo diviso in due sfere di influenza, e raffigurava idealmente l’inizio di una nuova era. Nell’immaginario collettivo in quel lontano 9 novembre 1989 prendeva vita un’epoca di pace, libera dalla minaccia nucleare, e di incondizionato disarmo bilaterale. L’Unione Sovietica, il nemico per antonomasia dell’Occidente del liberissimo mercato, aveva infatti perso un conflitto mai dichiarato ufficialmente, che coinvolgeva l’intera scacchiera geopolitica mondiale: terminavano le tensioni che avevano segnato per decenni i rapporti tra il blocco delle nazioni aderenti alla Nato, e quelle che si erano unite nel Patto di Varsavia.
Stati Uniti e Unione Sovietica erano il nodo centrale di una fitta rete di alleanze, tramite le quali avveniva lo scontro indiretto tra le due superpotenze nucleari. Si era creato un equilibrio mondiale, un assetto che fu inaspettatamente causa di ricadute positive per i popoli appartenenti all’alleanza atlantica. I Paesi europei decisero infatti di investire massicciamente sui comparti pubblici del welfare e delle cure sanitarie (presumibilmente mossi dall’intenzione di scongiurare eccessive simpatie da parte del popolo per i governi marxisti), dotando così le proprie società di invidiabili sistemi assistenziali (attualmente ridotti quasi a zero).
Il dopoguerra degli anni ‘90 vide invece in molti Stati la dissoluzione della leva militare obbligatoria. Gli eserciti europei, compreso quello italiano, vennero trasformati in contenitori di reparti speciali, formati da volontari, addestrati per essere impiegati nelle cosiddette “missioni di pace” all’estero. Quello stesso decennio testimoniava purtroppo anche l’inizio della rimozione della corazza normativa che, sino ad allora, proteggeva i diritti assoluti dei cittadini (fossero essi lavoratori che pensionati oppure casalinghe): le privatizzazioni e la mutilazione dello Statuto dei Lavoratori, nonché delle tutele sindacali, aprirono in seguito la strada alla demolizione del sistema di protezione sociale, nonché della sanità stessa.
I sogni di pace, invece, sono stati quasi immediatamente interrotti dal crepitio delle armi impiegate in una delle tante nuove guerre di espansione degli interessi Occidentali: un conflitto globale iniziato, trentatré anni fa, con la trasformazione della Jugoslavia in una delle più grandi macellerie della storia moderna. Al sangue versato nei Balcani è seguita la carneficina in Somalia e poi l’invasione dell’Iraq, la distruzione della Libia, il bombardamento di Belgrado, la demolizione di Gaza. La parola “guerra” è stata sdoganata, mentre la parola “pace” è stata messa definitivamente al bando. Il potere ha così svelato il suo vero volto, ossia un’espressione che non mostra alcun sentimento umano, ma solo cinismo e crudeltà.
La nuova epoca, edificata su solidi interessi economici, è raffigurata molto bene dall’attuale conflitto tra Ucraina e Russia: una guerra fratricida (come tutte le altre 56 ora in corso sul pianeta) in cui un esercito, in particolare, combatte per conto terzi. Lo stato di belligeranza vigente nell’Europa dell’Est ha annientato tutte le nostre certezze, poiché ha dimostrato come la tutela di alcuni dubbi affari (realizzati da pochi e potenti personaggi) possa far precipitare nel vuoto i tabù generati dalla Seconda guerra mondiale.
I giovani vengono di nuovo pesati come carne da cannone, e poco importa, a coloro che hanno nelle proprie mani il futuro del mondo, quale sarà il loro destino in trincea. La stessa opinione pubblica non batte ciglio di fronte alla richiesta del governo americano, diretta a quello ucraino, di mandare al fronte i diciottenni. Abbassare la leva di guerra dai 25 ai 18 anni è ritenuto normale da istituzioni e media nostrani (del resto i “ragazzi del ’99 hanno già dimostrato che a 18 anni si può morire nel fango in una guerra di posizione), così come non desta stupore l’alto tasso di diserzione che contraddistingue il conflitto russo-ucraino: decine di migliaia di soldati di Kiev abbandonano quotidianamente le armi, mentre sette milioni di cittadini sono fuggiti dal Paese per evitare la chiamata militare.
Una nazione svuotata dei suoi abitanti combatte, sicuramente, una guerra non voluta dai più, poiché alimentata dai valori appartenenti a una esigua minoranza della popolazione: quella che si raduna intorno al fanatismo nazionalista (la cui simbologia ricorda purtroppo quella in voga durante il nazismo). Questi ultimi, pur di raggiungere l’anelata purezza etnica, diventano esecutori fedeli di scelte prese, solitamente, da centrali straniere.
Nazionalismo e integralismo religioso sono fenomeni molto simili, nonché armi in possesso delle moderne potenze colonialiste. La recentissima vicenda siriana insegna come, nel nome del brutale opportunismo politico, un leader sulla cui testa pende una taglia posta dall’Occidente (poiché ritenuto un pericoloso, quanto crudele, terrorista) possa diventare magicamente un liberatore di popoli oppressi: un miracolato sulla via di Damasco; un estremista rinsavito e votato alla moderazione, come certamente dimostrano le numerose esecuzioni sommarie di funzionari fedeli al deposto regime (le vittime “se lo meritavano”, secondo alcuni commentatori nostrani).
Il trasformismo politico si esprime al meglio nelle vicende internazionali, nei repentini cambi di alleanza e nel sacrificio che si chiede a interi popoli. Un gioco pericoloso che spesso si ritorce contro chi lo attua, o meglio sulle genti che incautamente hanno messo al comando, della propria nazione, il cinico di turno.