Se le Poste tirano pacco

In Italia, l’ondata di privatizzazioni è stata favorita da un’opinione pubblica educata alla perfezione dai fautori del libero mercato. La politica, a sua volta, ha fatto la sua parte, tramite decenni di nomine ai vertici delle aziende pubbliche decise consultando con cura il manuale Cencelli, oppure sulla base dell’elementare equazione “dare uguale avere”, e raramente valutando la capacità dei candidati a ricoprire incarichi apicali. 

I media hanno assegnato ai servizi erogati dallo Stato, così come alle attività produttive statali, il poco lusinghiero titolo di “inutili carrozzoni pubblici”, descrivendo tali strutture come realtà mal gestite e costose, poiché lussuoso parcheggio per alcuni politici “trombati”. Un’immagine che, seppur solo in parte veritiera, ha consentito (quasi senza colpo ferire) di avviare una prima fase riformatrice, ossia la trasformazione delle istituzioni pubbliche in aziende: modifica terminologica importante, che ha consentito di accompagnare tali compagini pubbliche all’interno delle logiche di mercato (bilanci finanziari, e non sociali, logica di economicità delle scelte “aziendali”).

Lo step iniziale si è concluso con le sole prestazioni essenziali garantite alla cittadinanza, ma soprattutto con l’ingresso degli imprenditori privati nei settori precedentemente in regime di monopolio statale (oppure, in alcuni casi, comunale). Lo stadio successivo ha inferto, infine, il colpo mortale al sistema pubblico grazie all’avvio delle cosiddette privatizzazioni selvagge. 

La popolazione ha seguito tutti i passaggi che hanno condotto alla demolizione dei servizi statali con incontenibile entusiasmo, tranne sparute minoranze consapevoli, poiché convinta di assistere alla fine dei baracconi di Stato e, al contempo, di poter riporre incondizionata speranza nel trionfo del libero mercato. I risultati, oggi, si palesano davanti ai nostri occhi nelle vesti di una Sanità in grave affanno, oramai in gran parte affidata agli imprenditori del settore, e nelle bollette delle utenze domestiche in balia di continue, quanto ingiustificate, speculazioni finanziarie. 

L’esistenza dei cittadini è segnata negativamente da decenni di politiche focalizzate, esclusivamente, sui temi delle esternalizzazioni e dell’alienazione delle partecipate pubbliche. In questi giorni, infatti, rimbalza la notizia di cinque uffici postali in Torino che il 16 dicembre scorso hanno chiuso i loro battenti. Le motivazioni fornite da Poste Italiane, a giustificazione di tale scelta, sono estremamente semplici, ma in compenso marcatamente aziendalistiche: i servizi offerti dalle sedi decentrate sono sostituibili con il BancoPosta e la tecnologia digitale. 

Nessun cenno, da parte dei dirigenti di Poste Italiane, alle difficoltà che i tagli faranno ricadere sulla testa della popolazione, in particolar modo di quella più anziana. Purtroppo, la dirigenza di Poste Italiane non appare minimamente interessata alle conseguenze dettate dall’annientamento del servizio territoriale, così come si è dimostrata assolutamente insensibile sia alle critiche giunte dai partiti (Pd, M5s, Avs), che alle migliaia di firme raccolte tra i cittadini, e inviate all’attenzione del Presidente della Repubblica. I responsabili del servizio postale torinese hanno ignorato pure la battaglia sindacale intrapresa dall’unica organizzazione scesa in campo a difesa del servizio: la Cgil, tramite l’opera del combattivo esponente della Slc, Salvatore De Luca (faro di riferimento della mobilitazione diretta contro la chiusura degli uffici). 

Una mobilitazione che ha scosso anche l’impassibile primo cittadino di Torino, il quale ha presentato ricorso al TAR, evidenziando i diritti negati alla popolazione colpita dalla cancellazione dei cinque uffici. Dopo aver ottenuto il rinvio della chiusura all’inizio del nuovo anno, il lampo di entusiasmo collettivo è stato immediatamente spento dalla presentazione, da parte di Poste Italiane, di un’istanza di opposizione: atto accolto inaspettatamente dal Tribunale Amministrativo. Lunedì 16 dicembre, i cinque uffici non hanno aperto le loro porte ai cittadini: i locali sono stati abbandonati come si trovavano al momento della mancata apertura (scorte di cassa incluse).

Lo shock che ha subito Torino è stato grande, ed è stato grande anche lo stupore mostrato dai partiti e dal sindaco. I dirigenti di Poste Italiane hanno messo, ancora una volta, le esigenze economiche aziendali davanti agli interessi collettivi. I rami considerati morti sono stati recisi, come già accaduto in passato nei piccoli comuni montani, ignorando volutamente la qualità della vita di tante persone.

Ennesima cinica lezione destinata a tutte le forze politiche attratte dallo slogan “privato è bello”, e monito, al contempo, diretto a chi ancora crede che le esternalizzazioni siano la panacea di ogni male. Un brusco risveglio per coloro che hanno tifato per le gestioni in regime privato, e oggi hanno finalmente compreso di essere solo clienti e non più cittadini. 

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